Un cast di Ubu per La bisbetica domata diretta da Andrea Chiodi al Carcano, commedia in cui Shakespeare parla di manipolazione con tono misogino, ma solo per finta.
Più ancora della bisbetica, è la parola che viene domata in questa messinscena da non perdere della commedia di Shakespeare, fino al 18 febbraio al Teatro Carcano – spettacolo prodotto insieme al LAC di Lugano. Uno dei suoi testi più sottovalutati, ritenuto scorretto, misogino, in contrasto con i valori della nostra società, viene qui esaltato dalle colte angolazioni del regista Andrea Chiodi, che non concede niente alla farsa ma prosegue lungo un’elegante, asciutta linea post-ronconiana già annunciata nei Persiani di Eschilo al Teatro Due di Parma.
La battaglia dei sessi combattuta nella commedia non può che provocare un po’ di disagio negli spettatori, che potrebbero domandarsi cosa farsene di un testo sulle relazioni pericolose di un’isterica; testo che non sembra nemmeno sostenuto da significati profondi, psicologici o teatrali, ma solo da facili confronti tra forti e deboli, col risultato prevedibile della sottomissione a Petruccio di Caterina, che esce più perdente che mai con la lezione finale sulla moglie perfetta, al di là di ogni principio di parità di genere. Ma Shakespeare non sempre fa sfoggio della sua arte, anzi spesso la nasconde nelle pieghe del testo, che si contorce in contraddizioni apparenti come in questa commedia, oltretutto arricchita da una cornice di teatro nel teatro: così quel che è vero si fa finzione e viceversa, perché vale sempre che “chi ha il capogiro crede che sia il mondo a girare”.
Chiodi si orienta con grande abilità tra questi piani ambigui, tanto che il tema su cui lo spettacolo si sostiene, più ancora del sadomasochismo nel gioco di coppia, pare piuttosto il potere e la violenza della parola, che impregna la microfisica della scrittura di ogni personaggio. E in effetti sembra proprio questo l’ordine del discorso shakespeariano: un teatro della crudeltà in cui, anche quando si ride, si capisce non c’è più molto da ridere. Giusto quindi tenersi lontani dalle tentazioni di commedia dell’arte: niente lazzi né finti Arlecchini che distrarrebbero dall’addomesticamento di un testo tutto fatto di giochi di parole, doppi sensi e volgarità raffinatamente travestite dall’ottima traduzione di Angela Dematté.
Nell’azzurra scena-non-scena di Matteo Patrucco, immersa nel sofisticato disegno luci di Marco Grisa, gli attori si muovono come in stato di cattività, sorvegliati e puniti dalla violenza invisibile delle loro parole, marchiati dai costumi di Ilaria Ariemme. Tutta al maschile la compagnia, per ragioni più drammaturgiche che filologiche: per sottolineare come le manipolazioni non abbiano tanto a che fare con i secondi sessi quanto con le atroci trappole della dialettica.
Ed è esemplare in questo senso la trasformazione finale di Caterina, che Tindaro Granata interpreta con misura e lucidità, trasmettendo dal palco ogni sfumatura della sua tragedia, fino a lasciarci intendere che prima o poi riguarderà tutti quanti. Angelo Di Genio è un Petruccio brillante e pieno di energia senza essere mai smodato né chiassoso; Christian La Rosa interpreta Tranio in elegante sottrazione. Completano bene il cast Igor Horvat, Massimiliano Zampetti, Walter Rizzuto, Ugo Fiore e Rocco Schira, che mima la parte della sorella contesa di Caterina, Bianca. Le raffinate musiche di Zeno Gabaglio ampliano la verticalità dello spettacolo.
La Bisbetica Domata, di William Shakespeare, al Teatro Carcano fino al 18 febbraio