Al teatro I una straordinaria Federica Fracassi è Blondi, la cagna di Hitler: attraverso di lei la realtà è tutta raccontata da un evocativo linguaggio pre-verbale che fa sfumare tutte le categorie
Prima di Magda, prima di Eva, più vicina di tutte loro. Prima dell’innamoramento, prima dell’adesione all’ideale, c’è la devozione istintiva. Prima della retorica, prima delle parole d’amore, c’è il linguaggio averbale.
Per questo, anche per Massimo Sgorbani, non può che essere Blondi la prima delle “innamorate dello spavento”, o piuttosto dello spaventevole, l’archetipo del male quando si rovescia nella “cosa più bella del mondo”. Che non ha un nome ma ha una carica, la stessa, un volto, che si identifica immediatamente anche quando sfuma nel modo in cui può raccontarlo la presenza più fedele, Blondi appunto.
La cagna del Fuhrer. A Teatro I va in scena il più sperimentale, per molti versi il più difficile, dei racconti con cui da diversi anni il drammaturgo prova a raccontare le femmine di Hitler, affidandole a Federica Fracassi, cui questa volta tocca un’immersione senza appigli, in un mondo costruito di sensazioni e oggetti più che azioni, e dove tutta la realtà deve essere filtrata e può essere porta solo attraverso la percezione che Blondi ne ha.
Non si cercano scorciatoie sulla via del cartone animato, dell’animale antropomorfo, nella storia della cagna che ha seguito il venerato padrone tra le alpi bavaresi prima e nelle pareti strette del bunker poi. Al contrario, è la donna a farsi cane, a creare un linguaggio nuovo fatto di latrati, guaiti, di gesti che non vogliono mai essere mimesi che suonerebbe grottesca e un po’ ridicola ma sanno farsi autentica interpretazione.
Nello spazio limitato del palcoscenico, nella prossimità dell’interprete con ciò e chi la circonda, le espressioni della cagna, il suo agire, il suo percepire e il suo nominare la realtà per come il suo pensiero semplice, puramente istintuale, la avverte, costringe con forza, a tratti con violenza, lo spettatore ad adattare il proprio modo di sentire.
Così nella lingua sintetica che taglia il palcoscenico sembra di poter avvertire gli odori, l’universo di Blondi fatto di deiezioni ed esperienze che passano esclusivamente attraverso il corpo e i suoi orifizi riescono a generare una tangibile repulsione. E una domanda inespressa: è rivolta, quest’ultima, all’animale o all’umano?
È infatti proprio nell’identità tra uomo e animale che passa la forza di aver scelto di mettere in scena Blondi, senza che né l’autore né l’interprete cadano mai nel testo a tesi. Eppure “Per non far succedere certe cose brutte basta obbedire.
La paura forte fa imparare”, sono frasi che suonano più sinistre di ogni “Mein Fuhrer”, a un orecchio che abbia accettato di entrare nell’alfabeto e nel mondo linguistico e concettuale che Blondi costruisce. Una lingua dove i concetti, i riferimenti, le persone si scompongono in puri fonemi, in parole suono riproducibili da qualsiasi essere capace di esprimersi: e anche qui, il sotteso simbolico si scopre potente.
Quanto può essere pervasiva la forza di una comunicazione che non necessita, per avere eco e forza di latrato, di alcuna elaborazione se non quella sufficiente alle possibilità espressive di un latrato?
E se la sovrapposizione vale in questo senso vale anche all’opposto, e la gelosia di Blondi per il suo amatissimo padrone è quella di un’amante, di una donna che vede agire la rivale come a lei saprebbe eppure non le è permesso, fino a convincersi che a distinguerle c’è soltanto una cosa: la possibilità d’imparare.
E quindi solo il tempo necessario per farlo. Una traccia sottesa d’interpretazione che emerge carsicamente sotto l’interpretazione anche fisicamente estrema di una Federica Fracassi sontuosa e sorprendente anche conoscendone il talento, che governa la rete di suoni decomposti e moltiplicati sincopando un’ora e mezza densissima che somiglia a una corsa a perdifiato, quelle di cui i cani sentono l’esigenza.
Una corsa che non rallenta e anzi si fa sempre più ferina, animale, terrigna quanto più lo spazio si restringe nelle mura del bunker, le bombe cadono e incombe la consapevolezza di una fine sempre più prossima, di quando i giochi cominciano ad essere di quelli che “si fanno una volta e basta”, e anche la cagna comincia a imparare che la circondano cose nuove, “cose che finiscono”.
Così, nelle luci sempre più cupe e nelle scenografie acute di Renzo Martinelli, tra un vecchio faro che fa da pendolo, minaccioso e incombente, in un’oscillazione dal significato ambiguo e figurativo e un grande ventilatore di cui si impongono alla vista soprattutto le lame, il terrore si fa largo e si impone via via con più forza, e proprio laddove la vita sembra apparire in mezzo alla morte, la sovrapposizione tra specie è compiuta e la fine imminente, mentre anche Blondi, nella sua innocenza canina, impara ad uccidere senza saperlo, prima di farsi, quietamente, amorevolmente (e come altro potrebbe) cavia di una morte che segna la fine di qualcosa. male, l’orrore, lo spavento, che oggi sappiamo essere tutt’altro che finito, nascosto nella mano amorevole che un secondo prima ha accarezzato la testa del più fedele amico dell’uomo.
Il male, l’orrore, lo spavento, che oggi sappiamo essere tutt’altro che finito, nascosto nella mano amorevole che un secondo prima ha accarezzato la testa del più fedele amico dell’uomo.
Foto © Attilio Marasco