Il caso (dibattutissimo) dei murales bolognesi distrutti per protesta dal loro autore, Blu, è l’affaire artistico più interessante di questa prima metà di 2016. Ripubblichiamo le riflessioni di Giulio Dalvit: si parla di diritto d’autore, di differenze tra pubblico e privato, dell’importanza del contesto per l’arte contemporanea. E di seppoku.
Come è difficile. Come è difficile scrivere attorno al (dibattutissimo) caso delle opere di street art strappate, a Bologna, per la mostra Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano, promossa da Genus Bononiae, con il sostegno della Fondazione Carisbo, a cura di Christian Omodeo e Luca Ciancabilla. Il progetto avrebbe l’obiettivo, a parole bellissimo, di «salvare [le opere] dalla demolizione e preservarle dall’ingiuria del tempo», museificandole. Dietro il progetto c’è anche l’altrettanto discusso Fabio Roversi Monaco, già membro della loggia massonica Zamboni–De Rolandis, magnifico rettore dell’università dal 1985 al 2000, ex-presidente di Bologna Fiere e di Fondazione Carisbo, tuttora alla guida di Banca Imi, Accademia di Belle Arti e Genus Bononiae-Musei della Città.
Ora, quel che è successo è che, tra l’11 e il 12 marzo, il famigerato street artist Blu, aiutato da ragazzi dei centri sociali XM24 e Crash, ha cancellato dai muri della città tutte le sue opere bolognesi. Ne ha dato notizia, come una sorta di ufficio stampa, il collettivo di scrittori Wu Ming. L’intervento è stato preceduto da un acceso dibattito tra i curatori, gli artisti, alcuni professori universitari, critici d’arte ed esperti legali, soprattutto sulle colonne di Artribune e del Corriere della Sera, oltre che da un seminario organizzato a Bologna qualche mese fa. Il problema, sostanzialmente, ruotava attorno alla legittimità (artistica, storica, curatoriale e giuridica – culturale in genere) dell’operazione di strappo. Dell’altro giorno il colpo duro da parte di Blu, che, se non pone fine alle polemiche, certo mette una pietra tombale sulle possibilità di strappo. Da un lato c’è ora chi lamenta un vulnus intollerabile da parte della città: il partito di quelli – per dirla con Michele Serra – che “il risultato va in culo al popolo”. Dall’altra i partigiani della libertà artistica, ma soprattutto della lotta al potere e alla mercificazione dell’arte.
Da un lato, è evidente che il fatto che un’opera sia eseguita in modo illegale non ne fa automaticamente decadere il diritto d’autore. Ovvero: se l’opera è su un muro che non è mio, non vuol dire che chiunque possa strapparla dal muro e dire che è sua. Ovvero: l’operazione dei curatori non è legittima. Dall’altro lato, però, avrebbe senso per artisti che hanno fatto dell’idea di opera collettiva, di condivisione “street” della loro opera, ricorrere al tribunale per rivendicare il diritto d’autore? Ha detto, del resto, Christian Omodeo, centrando – in parte – il punto: “Rispetto al diritto d’autore, non me ne frega niente. Se espongo un’opera, perché considero che serva a portare avanti un discorso o a generare un dibattito lo faccio, esattamente come un dj che sceglie un sample per creare un pezzo totalmente nuovo. Mi aspetto di essere giudicato per quello che ho creato e non per come ho trattato i sample selezionati. Se poi uno o più artisti sentiranno il bisogno di fare ricorso a un quadro giuridico sclerotizzato come il diritto d’autore, valuterò il da farsi, ma la mia posizione non cambierà: un artista che rifiuta che la sua opera possa essere usata, trasformata, distrutta/conservata o deturpata è e sarà sempre ai miei occhi come una multinazionale che tutela i propri prodotti”.
Il problema, però, è che di arte ci si dovrebbe anche poter vivere. E infatti Blu stesso vende i suoi disegni. Certo, non attraverso i circuiti delle gallerie internazionali, ma attraverso sedicenti circuiti alternativi; che di alternativa però non hanno la moneta di scambio: sempre i denari, gli euro, magari pagati pure con PayPal su circuito Visa. È, del resto, lo stesso problema dei Wu Ming che, solo dopo aver pubblicato con Einaudi, rendono disponibili a gratis i loro ebooks, guadagnando – dicono – di più da una donazione volontaria di €5 che da una copia venduta. Ma hanno bisogno di vendere le copie in libreria prima che qualcuno vada a donargli questi euro che, seppur in assenza del copyright, sembrano essere molto vicini al riconoscimento di paternità artistica, forse anche al mecenatismo – ma siamo sicuri che ci manchi così tanto?
Il problema, a me pare, sta proprio qui: nella contraddizione in cui necessariamente cade il contestatore del sistema (l’artista), che ha bisogno che esso predomini perché lui continui a contestarlo. O il sistema viene poi rovesciato dalla rivoluzione, oppure assorbe il contestatore. Oppure, terza possibilità, il sistema vince e il contestatore si suicida. Ce l’hanno ben presente, questa storia, i giapponesi con il loro seppuku. Ma anche i Wu Ming, che scrivono:
La mostra Street Art. Banksy & Co. è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi. Dopo aver denunciato e stigmatizzato graffiti e disegni come vandalismo, dopo avere oppresso le culture giovanili che li hanno prodotti, dopo avere sgomberato i luoghi che sono stati laboratorio per quegli artisti, ora i poteri forti della città vogliono diventare i salvatori della street art. Tutto questo meritava una risposta. […] Blu cancella i pezzi dipinti a Bologna nel corso di quasi vent’anni.
Posto che i contestatori (vari) del sistema artistico contemporaneo non sono riusciti ancora a imporne uno differente, prima o poi questo problema si sarebbe posto. O meglio, si pone da cinquant’anni – e non si è ancora trovata una soluzione vera. Ora, però, alcune considerazioni intermedie sono di dovere. Intanto, questo duetto violento tra gli artisti e i curatori ha ignorato – e l’hanno fatto notare in tanti – il pubblico. Allora, qualche cosa da dire, per ciascuno dei vertici di questo triangolo.
Agli artisti. Il seppuku indica il riconoscimento della sconfitta, il legittimo sottrarsi al ricordo della storia. È questo che loro vogliono? Ma soprattutto: era questo il modo di farlo? Rivendicando, di fatto, la proprietà privata sull’opera da parte di chi del concetto di “pubblico” ha fatto il centro del proprio operare artistico? Il ragionamento del “male minore” deve toccare anche voi. Almeno il ragionamento. Questo è tutto, e non è poco.
Ai curatori, tre questioni.
1) È vero che lo strappo è una tecnica che si è usata più volte, in passato, per salvare le opere d’arte. Però qui la questione è diversa. Non solo la sensibilità novecentesca ci ha insegnato a rammaricarci di tutti i casi in cui, per museificare (ovvero gloriare la patria, il denaro, i benefattori, per prestare cioè le opere alla retorica del museo) abbiamo perso i contesti originari. Non solo abbiamo imparato che lo strappo è una vera e propria amputazione, che è bene compiere solo in assenza di una soluzione alternativa. Abbiamo anche imparato che esistono opere che, strappate dal loro contesto originario, perdono se non tutta, buona parte della loro artisticità. Questo non era vero per l’arte antica (forse), ma è sicuramente vero per l’arte novecentesca che del proprio aspetto teoretico-concettuale ha fatto un centro di significato.
2) “Se espongo un’opera, perché considero che serva a portare avanti un discorso o a generare un dibattito lo faccio, esattamente come un dj che sceglie un sample per creare un pezzo totalmente nuovo” – dice Christian Omodeo. Traluce qui la solita (ma già vecchia) idea dell’opera curatoriale come opera d’arte. La cosa ci può anche stare bene, ma le opere d’arte non sono figurine per esporre concetti. Bisogna avere rispetto delle opere d’arte: la creazione curatoriale ha modo di emergere dalle pagine dei cataloghi, dalle foto. Ma se una mostra vuole avere al proprio centro l’opera d’arte, la deve anche rispettare, e questo significa rispettarne il contesto e l’artista.
3) Come curatori, come studiosi, possibile non porsi il problema della radicale alterazione di significato insita nel portare un’opera street all’interno di uno spazio non solo chiuso, ma anche privato? Le sale di una fondazione bancaria, infatti, non sono, seppur votate al pubblico, pubbliche in sé. Anzi, sono gli spazi, privati, di quel potere che l’arte in questione ha radicalmente e continuamente contestato.
Al pubblico. Sarà anche vero che gli artisti si sono dimenticati del pubblico, ma il pubblico ha ignorato gli artisti. E soprattutto non ha fatto valere i propri diritti. La fondazione, infatti, rivendica di aver compiuto un atto a salvaguardia di ciò che è pubblico. Ma a tutela di ciò che è pubblico non dovrebbero esserci le fondazioni bancarie, quanto lo Stato, attraverso le Sovrintendenze (per le opere d’arte). Che hanno perso l’ennesima occasione di essere al passo con i tempi. Perché non porre sotto tutela le opere di Blu e dei graffitisti bolognesi? Perché non disporre in anticipo la tutela e la conservazione delle opere, d’accordo con gli artisti – come è avvenuto già altrove? Ancora una volta noi non ci siamo imposti affinché lo Stato trovasse la soluzione più giusta per noi come cittadini. E sconvolge vedere come questo punto sia stato mancato da tutti, come nessun giornale abbia colto la differenza fra un’opera di tutela pubblica e un’opera di tutela privata a (benemerito) vantaggio del pubblico. Il (preziosissimo) mecenatismo privato è bene che ci sia finché non rischia di provocare, in qualsiasi modo, una perdita per il patrimonio pubbblico. Non a fini di lucro, del resto, non significa “pubblico”.
E allora ecco qual è il vero problema. Abbiamo lasciato, una volta di più, che a ergersi a sedicenti paladini della tutela del patrimonio pubblico fossero le banche. Che, se anche fanno benemerite mostre e interventi conservativi, non sono lo Stato. Non abbiamo capito che avevamo tutti gli strumenti per evitare questo conflitto. Lo Stato, la collettività, avrebbe potuto dimostrarsi super partes, lasciar vivere la contraddizione, il Terzo, – come diceva Christa Wolf – “la materia vivente che sorride”. E invece ha mandato avanti uno dei due contendenti, lasciando che si ergesse a rappresentante di tutti, e ora l’altro si è suicidato, e tutti piangiamo. Piangiamo perché, seppur nella contraddizione, qualcosa di bello era stato fatto. Ora l’arbitro, che pure avrebbe potuto evitarlo, ha fatto esplodere il contenzioso, facendo finta di niente. La banca farà la mostra e gli artisti si suicideranno. A rimetterci saranno tutti quelli che pure si metteranno in fila, pagando per vedere un’arte morta e impagliata fatta di poche opere marginali, quando potevano vederla viva e a gratis, e grandiosa. Qui sta la responsabilità storica dei curatori, e di tutti noi.
P.S. Chiunque abbia studiato un po’ di arte (e non solo il diritto), sa che gli artisti sono gente irascibile. Bisogna saperli trattare, saper scendere a compromessi. Spesso odiano il sistema. E allora bisogna capirne le ragioni, non solo per accaparrarsi qualche opera, ma per capirne il portato, perché il sistema può migliorare solo quando riflette su se stesso. E gli artisti sanno aiutarci a fare questo. Altrimenti diventano cani rabbiosi, distruggono le opere, bruciano le poesie, perché sanno che alla fine chi ci perde davvero siamo noi, e non loro.