Una svolta leggendaria: poco più di cinquant’anni fa, il 30 agosto 1965, usciva Highway 61 Revisited, di Bob Dylan
Londra, 1966. Bob Dylan esaurisce il repertorio con chitarra acustica e armonica nella prima parte del concerto. Entra a fianco degli Hawks, imbraccia la chitarra elettrica e alza i volumi. Il pubblico si divide: da una parte si avvertono degli applausi non troppo caldi, dall’altra i fischi ben sostenuti e il grido supponente «Che è successo a Woody Guthrie, Bob?!»
È passato un anno dalla “svolta elettrica” del cantautore americano, inaugurata dal flop del Festival di Newport (25 luglio 1965), e ancora la gente si chiede che fine abbia fatto il menestrello arruffato, devoto ai maestri del folk ma ora con una coscienza artistica più spiccatamente comunicativa e attuale. Del resto, è un fatto risaputo, la natura umana è spesso reticente al cambiamento. Per sua fortuna, il fu Robert Zimmerman si serve anche di questi aspetti quando scrive i suoi testi: il dramma dell’uomo comune e i suoi limiti lo affascinano, nonostante si mostri provato dalle critiche.
Bob Dylan ci tiene a dimostrare che il superamento del “folk revival” verso il meno apprezzato folk-rock sia una svolta leggendaria e, nel corso di pochi mesi, escono tre album che hanno letteralmente fatto la storia. Nel marzo 1965 Bringing it all back home apre al cambiamento, ma la chitarra elettrica si affaccia timidamente solo nella seconda facciata del disco. In chiusura dell’anno, Blonde on blonde mostra una già più navigata confidenza con le contaminazioni di genere, e spazia dal blues al country, dal rock al folk. Ma il piatto forte di questa triade, che ha compiuto 50 anni lo scorso 30 agosto, è Highway 61 Revisited: un prezioso concentrato di creatività che riassume il cambiamento di rotta dylaniano.
I musicisti che partecipano alle sessioni di registrazione si rendono conto in primis del forte impatto che quel nuovo sound avrebbe avuto sull’ascoltatore. Tra tutti, è esemplare la testimonianza di Harvey Brooks, storico bassista di Bob Dylan. Harvey viene contattato dall’amico tastierista Al Kooper (già ingaggiato dal cantautore), e gli viene semplicemente detto di recarsi ai Columbia Studios senza troppe indicazioni.
Il lavoro è lavoro, e Brooks non si pone troppe domande. Entrando sente in sottofondo Like a rolling stone e ne resta colpito. In seguito affermerà: «Era un’introduzione a uno di quei tipi di testi che non avevo mai sentito prima. Mi sono detto sai che c’è? Sono nel posto giusto. Sapevo che qualcosa di nuovo stava accadendo». La sua adattabilità e la rapidità di apprendimento ben si sposano con il metodo di lavoro di Dylan: un approccio viscerale, intuitivo, in cui i versi partoriti dalla sua mente si plasmano sugli accordi con naturalezza, senza dare troppe indicazioni di stile alla band. Il bassista sottolinea: «È un po’ lo stesso modo di comporre dei vecchi bluesmen. Loro creavano partendo da gruppi di frasi, e Dylan è un vero maestro delle frasi».
Highway 61 Revisited è un album ricco sotto tutti i punti di vista. Colpisce in primo luogo la copertina: il fotografo Daniel Kramer pare averle provate tutte quel giorno, fuori dal ristorante O. Henry’s a New York. I capelli di Dylan sembrano essersi sviluppati in verticale rispetto agli scatti dei precedenti album, il look viene deciso al momento, acquistando una t-shirt con una motocicletta Triumph – un triste presagio pensando a posteriori al terribile incidente avuto dal cantante – e una strana camicia a fiori.
Sul set appare anche l’amico Bob Neuwirth (dalla vita in giù), con una macchina fotografica in mano, al solo scopo di “dare colore”. L’indicazione a Dylan è sempre la stessa: «Siedi lì e guarda l’obiettivo» e in soli due scatti con lo sguardo corrucciato e beffardo nasce una delle copertine più famose della storia della musica popolare.
Un intero capitolo sulle curiosità legate all’album dovrebbe essere dedicato al titolo e ai testi che ne fanno parte. La Highway 61, “la strada del grande fiume”, che insegue il Mississippi nel tratto che va dalla terra natale del cantautore (il Minnesota) alla calda ed emblematica New Orleans, è stata il luogo dell’anima di molti bluesmen: si dice che qui “l’imperatrice del Blues” Bessie Smith sia morta per le complicazioni legate a un incidente in auto e che Robert Johnson abbia venduto la propria anima al diavolo proprio all’incrocio tra la 61 e la Route 49.
Dylan si serve di questo luogo simbolico e letteralmente lo “rivisita”: il percorso lungo questa via polverosa diventa il teatro della desolazione umana in cui si muovono personaggi disperati. Gli interlocutori ai quali il cantastorie si rivolge direttamente, traccia dopo traccia, sono figure liminali: fanno parte di realtà intangibili e mitiche ma sono allo stesso tempo i più umani di tutti, schiavi della loro condizione di miseria e schiavi della loro precedente o attuale inconsapevolezza.
La parabola della strada si apre con il più grande successo Like a Rolling Stone: un colpo di rullante secco, quasi come il martelletto di un giudice che esprime la sentenza, precede l’organo Hammond al quale siede Al Kooper. Il suono pregnante è arricchito dal pianoforte e dalla malinconica chitarra di Mike Bloomfield. La voce aspra di Dylan sovrasta gli strumenti e con tono rabbioso ammonisce la famosa “Miss Lonely”, il primo antieroe dell’album: “Come ci si sente senza una casa, come una completa sconosciuta, come una pietra che rotola?”.
Le strofe avanzano in modo febbrile, indicando tutti i privilegi ai quali l’altezzosa signorina era abituata e lo stato in cui versa ora che deve “scendere a compromessi con un vagabondo misterioso”: il testo faceva inizialmente parte di un “vomito” di parole di venti pagine che Dylan aveva destinato a Tarantula, un prosimetro ermetico e visionario. L’idea viene presto abbandonata di fronte alla canzone così ben riuscita.
Il disco procede con l’ipnotizzante rock-blues di Tombstone Blues, con il caparbio rullante che spinge l’intera sezione ritmica e i soli di chitarra che riempiono gli spazi in cui la voce tace.
L’atmosfera si acquieta nella successiva It takes a lot to laugh, it takes a train to cry, una ballad pigra e scanzonata con l’irriverente armonica che stride nei picchi acuti dei soli. From a buick 6 torna al sapore di rock’n’roll con l’organo ancora ben presente, una sorta di filo rosso che lega le sonorità dell’intero album. Si arriva alla centrale Ballad of a thin man: il tono di Dylan si fa accusatorio, il pianoforte e gli altri strumenti si affrettano a entrare in risposta alla domanda martellante “Do you Mr. Jones?” come una sorta di eco. Il clima è cupo e il misero destinatario del testo è imprigionato nel suo stesso smarrimento: entra in una stanza “con una matita in mano” (dettaglio che tra i tanti ha fatto pensare che Zimmerman si rivolga a un giornalista) in cui sta accadendo qualcosa di surreale, le sue regole e il suo scarso spirito critico non gli permettono di capire cosa si stia manifestando e la voce nasale del cantautore sembra commiserare il limite dello sfortunato protagonista.
In modo speculare al pezzo di apertura, Queen Jane approximately narra la storia di un’altra donna in declino, mentre le sirene al principio di Highway 61 (un’idea di Al Kooper) ricordano un’atmosfera circense che ben si sposa con il testo onirico, con riferimenti biblici ed episodi crudi raccolti tutti nella medesima lunga strada. Il tono si addolcisce su Just like Tom Thumb’s Blues che precede la bellissima Desolation row.
Quest’ultima traccia di ben 659 parole in 11 minuti, della quale ricordiamo la versione italiana datata 1974 di De André, Via della povertà, è stata scritta sul sedile posteriore di un taxi, secondo quanto dichiarato dallo stesso Dylan nel 1969. Il testo descrive la stramba parata di una folta schiera di personaggi chiave dell’occidente, da T.S. Eliot a Ezra Pound, dagli shakespeariani Romeo e Giulietta ai biblici Caino e Abele. Una visione apocalittica che ha luogo nella strada della desolazione: la condizione di questi volti noti non deve essere giudicata se non immergendosi nella loro stessa dimensione, “not unless you mail them from Desolation Row”, a meno che i propri giudizi non provengano dalla stessa strada.
Bob Dylan è sempre notoriamente refrattario alle etichette, si sente stretto nei panni dell’oratore come in quelli di simbolo di una generazione. I testi tuttavia parlano da soli: poeta o non poeta, è un dovere festeggiare il cinquantenario di questo album, che nella sua interezza ben rappresenta l’eterna condizione di vulnerabilità della natura umana.
Bob Dylan, Highway 61 Revisited (1965)