Bob Dylan: sconosciuto illustre

In Cinema, Musica

Un pezzo di storia della musica popolare americana, la nascita artistica del grande folk singer. Questo racconta “A complete unknown”, il film di James Mangold interpretato da Timothée Chalamet che si cala tanto nella parte da apparire ambiguo, carismatico, scontroso e ribelle esattamente come il mitico cantautore. A condire il tutto la musica travolgente del giovane Robert Zimmermann

Cominciamo dalla cosa più importante: A complete unknown è un bel film, che merita di essere visto e che racconta un pezzo di storia della musica popolare americana che non è così conosciuto: la nascita artistica di Bob Dylan e la sua evoluzione, fino alla svolta elettrica di Newport nel 1965. 

La storia è quello di un giovane folk singer del Minnesota che sbarca a New York perché cerca qualcosa: in primis Woody Guthrie – vera leggenda della musica americana – che è in fin di vita in ospedale. E poi tutto il resto, ovvero New York City e tutto quello che un giovane provinciale di talento può trovare in una grande città. 

La storia è ben raccontata,  James Mangold è un regista di lungo corso che sa come tenerti all’erta, e la sceneggiatura regge bene anche da punto di vista storico. Sia chiaro, ci sono delle forzature e delle licenze narrative rispetto ai tempi e alle modalità di quegli anni fra il 1961 e il 1965. Per esempio il rapporto con Joan Baez non è andato esattamente come raccontato, ma fare un biopic su un personaggio vivente prevede che lo stesso protagonista possa dire la sua. E Dylan si è chiuso in una casa con il regista per cinque giorni per risistemare la narrazione, pare addirittura facendo sé stesso nelle riletture. E quindi, se la versione della sua vita è stata approvata dallo stesso Dylan, non si può eccepire su qualche cambiamento funzionale alla storia. 

Poi ci sarà sempre il fanatico che ne sa più del protagonista stesso che si mette a obiettare, ma il senso della parabola creativa e umana di Bob Dylan è raccontato con ritmo, intelligenza e anche pochi sconti. Tra le cose contestate c’è che nel film il giovane Robert Zimmermann quasi non tocca alcool e non si droga ma basta guardare negli occhi Timothée Chalamet in certe scene verso la fine del film per capire tutto.

A proposito di Chalamet, bisogna togliersi il cappello. Come nella migliore tradizione dei grandi attori del secolo scorso (da De Niro a Di Caprio) il bel Timothée è così dentro la parte da riuscire ad essere… brutto, proprio come Dylan. Certo, il naso aquilino applicato aiuta, ma aldilà dei trucchi è proprio lui che diventa Bob Dylan davanti alla cinepresa. Sia per un’interpretazione magistrale, sia per la sua capacità di suonare e cantare live i pezzi più famosi dei primi album. Non lo scimmiotta, lo diventa, Bob Dylan.

Chalamet ha imparato a suonare la chitarra per questo film, si è immerso nella storia e ha assorbito anche l’essenza inspiegabile del grande Bob. Nel film è ambiguo, carismatico, stronzo come pochi con le donne, scontroso, discontinuo, ribelle. Il film diventa storia attraverso la sua faccia e la sua musica. 

La musica: fa la differenza, soprattutto nei testi che all’epoca furono decisivi. Dylan nei fatti si inventò una categoria, quella dei cantautori. Ovvio che esistevano prima, e come dicevo all’inizio il vero mito è Woody Guthrie, uomo che andava in giro a suonare paese per paese con una chitarra con sopra ben stampato “This machine kills fascist”. Ma Dylan rompe il muro che separa la nicchia del Greenwich Village dal successo nazionale e poi mondiale. E non lo fa con canzonette pop, ma con brani poetici che se la prendono con il potere, con la guerra, con quel mondo pieno di sicurezze che gli “adulti” dell’epoca avevano costruito dopo aver vinto la seconda guerra mondiale. E’ forse il periodo più prolifico di Dylan, basta citare qualcuno dei titoli di quegli anni: Highway 61 revisited, Mr Tambourine man, A hard’s rain gonna fall, Master of war, Blowin in the wind, The times they are a changin’, Maggie’s farm”, Like a rolling stone. Solo questi titoli fanno una carriera, Dylan li ha scritti e cantati in quattro anni.

L’unico appunto che mi viene di fare è che manca il punto di vista dei giovani americani dell’epoca. Le vicende storiche che attraversano quegli anni sono snocciolate attraverso le immagini dei telegiornali degli anni presi in esame, mentre ciò che i ragazzi di allora provavano ascoltando Dylan e ciò che questo rappresentava viene raccontato solo dal successo dei dischi e dei live. Ascoltate quello che Bruce Springsteen disse di Dylan qualche anno fa in una conferenza, si capirà meglio cosa è stato e cosa è ancora oggi quel monumento ambulante dotato di chitarra e voce di sabbia e colla (cit David Bowie) che dopo sessanta anni è ancora in tour.
Thank you Bob

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