Nel giugno 1980 lo stadio di San Siro si spalancò per la prima volta a un concerto rock, quello del cantautore giamaicano a cui accorsero 100mila spettatori
Breve la vita (felice?) di Robert Nesta “Bob” Marley, morto giusto quarant’anni fa, l’11 maggio 1981, a 36 anni. La prima star globale della musica espressa con tanta imperiosità da quelli che un tempo chiamavamo paesi del Terzo Mondo e oggi, in maniera più pudica e forse più ipocrita, definiamo “nazioni in via di sviluppo”. Le grandi platee, fino agli anni ’80, erano appannaggio dei musicisti americani e inglesi. Prima di Marley, le isole dei Caraibi come la sua Giamaica che negli anni ’50 aveva esportato il mento (Jamaica farewell di Harry Belafonte, tanto per capirci) e negli anni ’60 lo ska (Israelites di Desmond Dekker) erano state spesso e volentieri scrigni sonori, culle di esotismi più o meno tenaci: il calypso di Trinidad, il mambo il son e il cha cha cha di Cuba, il merengue della Repubblica Dominicana, i mille ritmi che andarono a speziare il salsa e l’afro-cuban jazz.
Non soltanto isole: dall’Argentina giungevano il nuevo tango di Piazzolla e la milonga, dal Brasile samba e bossa nova. Con i loro artisti di culto che nominare sarebbe lungo e che da noi trovarono accoglienza e, in tempi di dittature militari, anche asilo, penso a Chico Buarque. Soltanto a Marley riuscì però l’impresa, nel giugno 1980, di spalancare per la prima volta lo stadio di San Siro ai concerti rock e di fare accorrere una folla di 100mila spettatori eccitati.
Raccontare la sua vita tra accadimenti e leggenda è intrecciare il filo di molte storie tra inferno e paradiso, tra le baracche del ghetto e la nuova Gerusalemme sognata, tra istanze di rivolta e sogni di redenzione, tra ribellismo da “rude boy” e aspirazioni mistiche. Violenza e amore universale in uno strano ma non così illogico abbraccio, la pelle che scotta per una doppia esclusione: come nero discendente di schiavi, come giamaicano (e come i fratelli africani, Marley sarà un idolo anche lì e suonerà nel 1980 al concerto per l’indipendenza dello Zimbabwe, quando si ammaina la bandiera inglese e la Rhodesia del razzista Ian Smith viene archiviata) oppresso da un colonialismo che resiste, più ovattato, anche dopo la conquista dell’indipendenza nel 1962.
Inevitabile che Bob Marley diventi, al tempo stesso, una rockstar, un guru spirituale e una voce politica che infiamma gli esclusi, per quanto sfugga alle adesioni contingenti e alle affiliazioni. Però è dalla parte degli ultimi, però è rastafariano, ci arriveremo. L’unico che nella musica di quegli anni gli assomigli un poco, nell’assoluta diversità delle storie e degli stili, è Fela Anikulapo Kuti, pericolo pubblico numero uno delle élite nigeriane, splendido musicista adorato in Africa e poco noto dalle nostre parti, fuori dalla ristretta cerchia degli appassionati.
Proviamo a raccontarla, allora, la sua storia. Che ha già nella nascita (6 febbraio 1945 a Nine Mile, un villaggio di agricoltori dove oggi portano in gita i turisti da Montego Bay al suo museo e alla sua tomba) il seme del conflitto. Bob è figlio di una ragazza nera, Cedella Booker, che quando lo partorisce ha 19 anni. E di un inglese non più di primo pelo, Norville Marley, che quando lo concepisce ha sessant’anni. Si sposano, Cedella figlia del patriarca e guaritore contadino Omeriah, e Norville che è stato capitano di marina e ora fa il soprastante nelle piantagioni dei bianchi. Si sposano e lui riconosce il figlio: andrà via il giorno dopo il matrimonio, Bob e Cedella li vedrà al massimo una due volte nella vita. In giro dicono che sia stato diseredato dai parenti, di certo si sa che si è risposato, bigamo, con un’altra donna. Bob non lo vorrà mai incontrare e riterrà il suo concepimento frutto di uno stupro.
Cresce, il bambino e il ragazzo Marley, in campagna. Amato dalla tribù dei Booker, introverso e riflessivo, mite e svagato. Quando ha 12 anni, nel 1957, si trasferisce nella capitale Kingston con la madre, nelle case popolari del ghetto di Trenchtown, che comparirà spesso nelle sue canzoni (anche in una delle più famose, No woman no cry, dove dirà alla donna che sta consolando che si ricorda di quando, nei bracieri davanti a quelle baracche, cuocevano il porridge di mais). Tre anni dopo smette gli studi e va a fare il saldatore (non resisterà a lungo, dopo un infortunio sul lavoro che rischia di fargli perdere la vista con frammenti metallici incandescenti che gli finiscono negli occhi e nessuna maschera di protezione), nel 1961 è già cantante sedicenne (il primo singolo è Judge not), un anno dopo si avvicina al rastafarianesimo, a 19 anni nel 1964 fonda il complesso dei Wailers, “i piagnoni”, con l’amico d’infanzia Bunny Livingston e il nuovo amico di ghetto Peter Tosh. Nel 1966, infine, sposa Rita Anderson: ci farà tre figli, due che Rita ha avuto da precedenti relazioni li riconoscerà, e altri otto li avrà da altrettante donne e riconoscerà anche quelli. In nuce, tutta la sua vita è già qui, e al tempo stesso tutto deve ancora accadere.
Proviamo a riavvolgere il nastro. Nella Giamaica da poco indipendente la miseria è tanta e la violenza tangibile. Si scontrano per il potere, con alterne vicende, due partiti che da noi si definirebbero progressista e conservatore, ma che in quell’America Latina dove tutto sfugge come un’anguilla (nel Messico è stato al potere dal 1929 al 2000 uno splendido ossimoro come il Partito Rivoluzionario Istituzionale, che era di centro) è difficile definire perfettamente. Comunque, diciamo che il partito “di sinistra” ha un nome di destra (Partito Nazionale del Popolo) e che il partito di destra (qui ci sono meno dubbi: è di destra, negli anni ’80 sarà un fedele vassallo di Ronald Reagan e della sua politica nella zona) ha un nome di sinistra, Partito Laburista Giamaicano. Sinistra e destra fanno poco per evitare che l’economia tracolli, ma si combattono con gang assoldate nei ghetti e armate di machete, fucili e mitra. A ogni campagna elettorale, prima che si aprano le urne, si contano centinaia di morti. I fondatori dei due partiti, Norman Manley e Alexander Bustamante, sono cugini. Figli dell’élite.
Bob Marley se ne ricorderà quando in Them belly full (but we angry) descriverà la povertà a cui nessuno mette rimedio: “Loro sazi ma noi affamati/ Una massa affamata è una massa furente/ Scende la pioggia ma non scioglie lo sporco/ La pentola sul fuoco ma il cibo è scarso”. In una politica violenta e “peronista”, e nella violenza del ghetto, Marley cresce e impara. Non è un teppista come i “rude boys” di Trenchtown che spesso vanno a finire male, e in parecchie canzoni invita i coetanei e gli amici alla calma. Però si sa difendere. È alto un metro e sessantantatré ma non si fa mettere i piedi in testa. Se gliele danno le restituisce con gli interessi e nel quartiere lo chiamano “Tuff Gong”, il più forte, che sarà anche il nome della sua casa discografica.
Intanto si è fatto rastafariano, ha scelto una religione nuova di zecca che rilegge il cristianesimo copto all’incrocio con la politica e con il nazionalismo nero. Ancora un passo indietro. Il primo eroe nazionale proclamato dalla Giamaica indipendente è stato Marcus Garvey (1887-1940), sindacalista e scrittore convinto che i neri discendenti degli schiavi dovessero ritornare in Africa e trovare una nuova patria nell’unico stato indipendente del continente, l’Etiopia. I rastafariani hanno fatto un passo ulteriore, vedendo nell’imperatore Hailé Selassié, duecentoventicinquesimo discendente di Salomone e della regina di Saba, non solo il Re dei Re e il Leone di Giuda, ma il Cristo disceso sulla terra per la seconda volta. Diventata qui in Occidente simbolo di mite freakerie (i dreadlocks, che però per loro riprendevano il divieto di tagliarsi i capelli, si ricordi la storia di Sansone; la marijuana, strumento di meditazione, e chissà se era vero) la religione rasta ha tuttavia il divieto di fumo, droghe e alcool, una forte raccomandazione della temperanza (niente carne e pesci predatori, una serie di tabù alimentari detti “ital”), una vocazione all’ecumenismo e alla tolleranza e, al tempo stesso, una forte connotazione mistico-terzomondista (l’Etiopia come la nuova Sion, l’Occidente come Babilonia).
In grado di badare a sé e fortificato dalla nuova fede, Marley muove i suoi primi passi nella piccola giungla musicale giamaicana. Fatta di produttori geniali e poveri che spesso sono anche, nella gestione degli affari, cialtroni o ladri privi di scrupoli. Chi canta e incide per loro prende due soldi, registrazione del disco e diritti sulle canzoni compresi. Di fronte al boicottaggio dei dj o a chi li deruba più del dovuto, Marley e i suoi reagiscono e si fanno largo, spesso, a suon di sberle. Nei primi anni attraversano tutti gli stili: partono dallo ska, approdano al rocksteady che è uno ska dal tempo rallentato, e infine saltano fra i primi sulla barca del reggae (il genere è stato battezzato nel 1968 da Do the reggay di Toots & The Maytals), una musica più frenetica e convulsa, con le linee di basso in evidenza e le ritmiche in levare. Anche le canzoni, da festose e sboccate che erano agli inizi, si fanno più riflessive, mistiche e politiche. Ai produttori spesso questo non piace, ma avranno ragione i tre ragazzi, pionieri e alfieri del “roots reggae”.
Il salto di scala – Marley e i Wailers sono già le massime star giamaicane – avviene nel 1973, quando li mette sotto contratto la Island dell’anglo-giamaicano bianco Chris Blackwell, che ha già in scuderia tra gli altri i Traffic e i Fairport Convention, Cat Stevens e Nick Drake, i Roxy Music e Brian Eno. Il primo album, Catch a fire (dentro ci sono Stir it up e No more trouble) suscita interesse, ma è l’immediatamente successivo Burnin’ (con l’infuocata Get up, stand up e la rabbiosa I shot the sheriff contro gli abusi della polizia che verrà ripresa da una fortunatissima versione di Eric Clapton) a fare il botto. Marley, che intanto ha perso Livingston e Tosh avviati a una carriera solista, fa il sold out in Inghilterra e negli Stati Uniti, gira trionfalmente il mondo con una band nuova di zecca, è diventato eroe carismatico dal seguito sempre più ampio non solo nella sua Giamaica (nel 1978 l’Onu gli conferisce la medaglia della pace a nome di 500 milioni di africani).
Sono di questi anni frenetici le sue canzoni più celebri: War, che mette in musica un discorso antirazzista dell’imperatore etiope; e poi One love, Exodus, Could you be loved, la meravigliosa Redemption song. E una serie di album a volte frettolosi ma più spesso smaglianti (Natty dread del 1974, Rastaman vibration del 1976, Exodus del 1977, Uprising del 1980).
Intanto ha rischiato di finire ucciso nel 1976, quando un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione a casa sua sparando addosso a lui, alla moglie e a due collaboratori. Ferito a un braccio Marley, che due giorni dopo avrebbe dovuto esibirsi a un concerto gratuito sponsorizzato dal governo di sinistra, mantiene l’impegno. All’origine dell’aggressione pare ci fosse l’intenzione di vendicare uno “sgarro” commesso da un suo collaboratore, l’ex calciatore Alan Cole, che aveva collaborato a una truffa all’ippodromo e se l’era svignata con il bottino. La Cia ci vede però un avvertimento brutale del partito di opposizione.
Scampato all’aggressione, Marley si è però scoperto ammalato: un melanoma al piede destro mal diagnosticato all’inizio e curato con “terapie alternative” in seguito (i medici proponevano l’amputazione dell’alluce, Marley rifiutò perché la religione rasta lo vietava), nel corso di due anni produce metastasi in tutto il corpo. La morte lo coglie a Miami, dopo un ricovero in Germania. Il suo mito, che intanto la destra giamaicana andata al potere ha provveduto a disinnescare (pochi mesi dopo la sua morte il cantante è stato proclamato eroe nazionale) è rimasto intatto, e nel 2008 l’Unesco ha accolto il reggae nel patrimonio immateriale dell’umanità.