Cosa ci è piaciuto e cosa no della grande esposizione che Palazzo Reale dedica a Umberto Boccioni nel centenario della sua morte. Troverete: moltissimi disegni, la scaltrezza di Filippo Tommaso Marinetti, un misterioso “Atlante della Memoria”, un geniale storico dell’arte tedesco, il confronto con Picasso, alcuni sacchi di juta.
Non si trattava di pagare l’inevitabile pegno a un anniversario, anche se proprio cento sono gli anni trascorsi da quando un’improvvida caduta da cavallo mise fine alla vita di Umberto Boccioni. Né di riproporre una mostra antologica sull’artista: “il meglio di Boccioni”: ne sono state fatte tante, anche in tempi recenti. La grande esposizione dedicata a Boccioni in Palazzo Reale, esito di una virtuosa collaborazione civica con il Museo del Novecento e i Musei del Castello Sforzesco (con il contributo di Electa), nasce, nella volontà dei curatori Agostino Contò e Francesca Rossi, come mostra di studio e ricerca. Fare il punto su Boccioni, raccontandone la complessa vicenda, ben lontana dalla semplificazione più ovvia: Boccioni, il più grande artista futurista, Boccioni il “vicerè” del futurismo (al seguito, si intende, di sua maestà Filippo Tommaso, gran volpone).
Boccioni è stato certamente il maggiore tra gli artisti futuristi, ma è stato anche molte altre cose prima (in una carriera vorace che a stento raggiunge i quindici anni) e molto altro avrebbe fatto dopo, se ne avesse avuto il tempo. Se non fosse morto sotto le armi nel 1916, se Marinetti, con la consueta formidabile abilità, non avesse colto la palla al balzo per celebrarlo, a cadavere ancora caldo, con una grandiosa mostra che santificava una volta per tutte Sant’Umberto, martire del Futurismo, oggi forse parleremmo di una “fase futurista” di Boccioni; così capita per Carrà o Sironi, per stare ad altri due giganti del nostro Novecento. Ma tant’è, così sono andate le cose.
Ben venga dunque l’esposizione a rammemorarne la formazione con Giovanni Maria Mataloni, pittore cartellonista di gusto Art Nouveau (e l’eleganza della firma di Boccioni, anche molti anni dopo, resta a testimoniare quel primo imprinting); a raccontare gli anni trascorsi insieme a Severini nello studio di Balla, a imparare i segreti del divisionismo e l’arte del ritratto. E poi la passione per il simbolismo di Previati e Segantini, i viaggi di formazione (Parigi prima di tutto), la scoperta dei post-impressionisti, il confronto, da pari a pari, con Picasso e i primi passi del cubismo. Il trasferimento a Milano, nel 1907 e la fascinazione per la modernità della grande città industre, dei cantieri, dei tram. Infine la svolta futurista, lo sforzo, anche teorico, di inventare un’arte nuova. E le ultime ricerche, già da militare, che sembrano alludere a nuove tappe – tornando alla figurazione, tornando a Cezanne – rimaste solo accennate.
Tutto questo viene raccontato in mostra attraverso due assi portanti, scelti dai curatori: l’Atlante delle memoria e la centralità del disegno.
Bilderatlas Mnemosyne?
Chi entra nella prima sala della mostra, si trova davanti a un bassorilievo romano del secondo secolo dopo Cristo. Raffigura Mnemosyne, figlia di Urano e Gea, madre delle Muse. Un pannello didattico spiega la scelta, indubbiamente spiazzante. Questo l’accaduto: durante i lavori di preparazione dell’esposizione è stato reperito, negli archivi della Biblioteca Civica di Verona, un nucleo di documenti legati a Boccioni: libri, fotografie, una voluminosa rassegna stampa futurista – approntata probabilmente con l’aiuto dello stesso Marinetti – e, soprattutto, una singolare raccolta di immagini – cartoline, ritagli, francobolli, biglietti di esposizioni, cartoncini pubblicitari – incollate su ventidue tavole di grosse dimensioni (la metà sono esposte in mostra) che i curatori hanno battezzato, forse in maniera un poco altisonante, “Atlante della Memoria”. Tra le altre immagini, anche quella del bassorilievo di Mnemosyne. Si faccia attenzione alle parole: Atlante + Mnemosyne = Bilderatlas Mnemosyne (letteralmente, Atlante figurativo di Mnemosyne), ovvero l’ultimo grandioso e incompleto progetto di Aby Warburg (1866-1929), pionieristico storico dell’arte tedesco, geniale e tormentatissimo (che sarà anche un luogo comune romantico, ma in questo caso è proprio vero). È questa l’interferenza, ampiamente dichiarata, che agisce dietro le scelte interpretative dei curatori. L’atlante di Warburg conteneva migliaia di immagini sapientemente assemblate per indagare le forme di sopravvivenza e trasmissione di moduli figurativi attraverso i secoli e i continenti. La raffigurazione di una dea greca poteva trovare rispondenza formale, nella strepitosa cultura figurativa di Warburg, in un bassorilievo rinascimentale fiorentino o in un dipinto di Ghirlandaio, e così via. Ma l’album di Boccioni è davvero qualcosa di simile, di ugualmente consapevole?
Non si sa con certezza in che occasione le tavole siano state predisposte. Secondo l’ipotesi dei curatori Boccioni avrebbe qui raccolto, nell’arco di circa un decennio, una serie di immagini per lui significative, assemblandole secondo criteri vari – per tipologia, per periodo, per soggetto – e non sempre comprensibili. Ci si trova di tutto, dall’arte antica ai contemporanei, dalla scultura medioevale alle medaglie rinascimentali, da Raffaello a Dürer a Segantini e Previati. Nell’interpretazione proposta in mostra, un “Atlante della Memoria”, una consapevole rappresentazione dell’universo figurativo dell’artista, un repertorio delle sue predilezioni e dei suoi riferimenti.
L’album diventa così, nella costruzione dei curatori, la bussola grazie alla quale orientarsi negli anni della formazione –complessi, ricchi di viaggi e di incontri, e di stimoli e suggestioni – di Boccioni. In ogni sala qualche opera raffigurata nell’Atlante campeggia sulle pareti, alla ricerca di un dialogo spesso difficile con le opere di Boccioni. La sensazione, a tratti, è che si sia voluto forzare il nuovo documento a una precisa e programmatica volontà dell’artista, tutta da dimostrare. Che quelle immagini fossero presenti nel bagaglio figurativo di un artista curioso e onnivoro come Boccioni è un dato. E non mancano confronti interessanti, esempi di riutilizzi e ripensamenti di quelle immagini nelle opere dell’artista.
Ma che Boccioni abbia voluto, in quelle tavole, fornire un’organica rappresentazione delle sue predilezioni su cui sia legittimo impostare un’interpretazione del suo percorso, è tutt’altra cosa. Tanto più che, come ben spiegato in catalogo, molte delle immagini sono prove di stampa per la rivista “Emporium”, una delle più importanti dell’epoca; ritagli probabilmente forniti a Boccioni da Gabriele Chiattone, interessante figura di artista-tipografo, amico e mecenate di Umberto. Immagini quindi legate, in qualche modo, alla contingenza di ciò che veniva pubblicato sulla rivista. Insomma: davvero Ambrogio De Predis, mediocre orafo e pittore della corte sforzesca che compare a più riprese nell’Atlante e in mostra, è significativo per comprendere il percorso di Boccioni? E non si rischia, così, di confondere la gerarchia delle influenze? Certo, qui, tra dipinti rinascimentali e bassorilievi antichi, non si corre il rischio che qualcuno, passeggiando per le sale, si trovi a pronunciare le parole che un giovane e ghiribizzoso Roberto Longhi, in piena militanza critica, metteva in bocca, per sbeffeggio, agli ipotetici visitatori di un’esposizione di pittori futuristi: «Ma, e la tradizione dov’è? Dopo la Venere di Milo… Michelangelo… Raffaello…».
Gli «spigoli» delle cose
La forza della mostra sta nell’imponente numero di disegni esposti. Il più ingente corpus grafico di Boccioni al mondo, normalmente conservato al Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco, è ora esposto nella sua interezza nelle sale di Palazzo Reale: sessanta fogli, a coprire quasi l’intera carriera del pittore, integrati da numerosi prestiti ben selezionati. E la disponibilità dei disegni ha orientato la selezione dei dipinti, soprattutto per quanto riguarda gli anni del Futurismo: si sono scelti dipinti che potessero dialogare con il corpus grafico. Opere celebri ma che non rientravano nel progetto della mostra sono così meritoriamente rimaste esposte nelle loro sedi abituali, anche se sarebbe stato facile spostarle; e il percorso di visita si completa, come suggeriscono i curatori, facendo un giro nell’adiacente Museo del Novecento o una puntatina, perché no, ad ammirare la Rissa in Galleria a Brera.
Il confronto tra disegni e dipinti si rivela una chiave di accesso privilegiata per comprendere le opere futuriste (nonostante l’allestimento, di rara bruttezza, tra archi di juta e cannocchiali prospettici, faccia di tutto per scoraggiare il dialogo). Si segue, nella successione dei bozzetti, la progressiva messa a fuoco delle immagini a partire da elementi reali e, insieme, lo sviluppo dei pensieri dell’artista, in un momento in cui disegni e dipinti e sculture e scritti sembrano completarsi gli uni con gli altri, tutte membra di un’unica riflessione sui modi di raffigurare il reale in movimento. Il segno essenziale e potente di Boccioni, accanito disegnatore per tutta la vita, rivela le linee di forza che sorreggono le composizioni, gli «spigoli» delle cose, secondo una felice espressione di Margherita Sarfatti. Guardando i disegni si ha l’impressione, insomma, di capire meglio i dipinti, di comprenderne la struttura formale più intima. Ed è un’occasione preziosa.
Solo accennato è il confronto con la Francia e con Picasso, con quel Cubismo che a Boccioni appariva «una truccatura dell’influenza futurista che non vogliono confessare. Chauvinisme!» (così in una lettera a Severini del 1913). Eppure, proprio il confronto con la Francia resta imprescindibile per comprendere gli sviluppi formali di Boccioni. Eppure, nel dialogo a distanza tra due giganti come Picasso e Boccioni che per qualche tempo si confrontano da pari, su percorsi paralleli, ci sarebbe materiale, a saperla scrivere, per una pièce memorabile. Sarà per la prossima volta.
Umberto Boccioni (1882-1916): genio e memoria, a cura di Agostino Contò e Francesca Rossi, Palazzo Reale, fino al 10 luglio 2016.
Immagine di copertina: Umberto Boccioni, Autoritratto, 1908, Pinacoteca di Brera.