Ha debuttato a Opéra Bastille una Bohème che più eccentrica non si può. Anzi, lontana anni luce da Puccini. Eppure in questa versione fantascientifica del regista tedesco Claus Guth (ma la direzione di Manuel Lòpez Gomez è più convenzionale) nulla è gratuito
È una guida galattica per bohémiens quella che il regista tedesco Claus Guth ha allestito all’Opéra Bastille nel mese di dicembre, con gran scandalo dei parigini che si aspettavano di ritrovare in sala le stesse strade percorse per arrivare a teatro. In scena una Bohème senza Quartiere Latino, né soffitte o caminetti, ma con il palco immerso nello spazio profondo: una navicella fluttuante alla deriva attraverso i primi due quadri e che atterra infine, per gli ultimi due, sull’inospitale e silenziosa superficie lunare – le scene sono di Étienne Pluss, le luci di Fabrice Kebour.
Tutto molto lontano da quanto previsto da Puccini con Giacosa e Illica, al lavoro insieme per tradurre in opera le Scènes de la vie de bohème di Henry Murger. La partitura caleidoscopica che ne è derivata, flusso ininterrotto di personaggi, beffe, sfide, amori corrisposti e non, è tra le più eseguite e amate al mondo per come sa divertire e commuovere, con scene di miseria materiale e nobiltà di sentimenti. E gli spettatori si aspettano ogni volta la stessa atmosfera chiassosamente bozzettistica, ben supportata dalla «strategia naturalistica» di Puccini, come dice Julian Budden, sempre capace di alternare tinte giocose ed esuberanti a struggenti espansioni liriche, con una coerenza drammatica quasi miracolosa.
Ma per quanto possa sembrare strano, in questa versione fantascientifica di Guth non c’è niente di gratuito né di provocatorio. Quello che più stupisce, oltre alla capacità tecnica e alla sapienza teatrale con cui il regista ha coordinato lo spettacolo, è il fatto che la sua lettura apra a interpretazioni meno scontate e meno esteriori di un’opera straeseguita come questa. Bisogna solo reinterpretare la vicenda.
Il cosmonauta Rodolfo è un Odisseo nello spazio rimasto in panne e ormai spacciato per carenza di cibo e ossigeno, destinato più prima che poi a una fine in solitudine, dopo aver perso tutti i suoi colleghi ex bohémiens ora convertiti in passeggiatori lunari – non manca chi si toglie il casco per suicidarsi come in Mission to Mars. Così la lenta e inesorabile asfissia lascia ai personaggi il tempo di entrare in rotta di collisione con i ricordi di gioventù, fuggendo dal futuro per rifugiarsi in amori e illusioni perdute.
È in questo luogo più remoto che mai, ai confini dello spazio, del tempo e della vita, che le loro allucinazioni saltano dalla Terra alla Luna con forme sempre più precise: Mimì, morta da tempo – si vede il funerale durante la marcia militare del secondo quadro –, risbuca in rosso sul piano inclinato dell’astronave, che a poco a poco si popola di mimi e saltimbanchi, con un accenno di café-chantant quando Musetta inizia il suo valzer. Poi ci si sposta sulla Luna, coi rottami del viaggio spaziale imbiancati da una nevicata zeffirelliana.
Ogni astronauta ha un suo doppio “in borghese”, un fantasma che canta l’ultima stagione della sua giovinezza, finché nel finale spunta uno scintillante siparietto brechtiano governato da un mimo alla Lecoq – il bravo Guérrasim Dichliev – che dà il ritmo ai flashback, alle visioni di un passato che non c’è più. Nel finale è Rodolfo che muore: solo, perduto, abbandonato in una landa che più desolata di così non si può, mentre l’ombra di Mimì, ora in bianco, sfila sullo sfondo con passo da sonnambula.
Il colpo di teatro di questo incontro ravvicinato tra La bohème e Solaris è che la fantascienza viene usata più come cronaca dal passato che dal futuro, come in effetti avviene sempre nei riferimenti cinefili usati da Guth. Anche nel film di Tarkovskij (1972) il pianeta Solaris sapeva rivoltare l’inconscio come un guanto, permettendo materializzazioni di ricordi e proiezioni di sentimenti. La fantascienza ha sempre il pregio di essere simbolica senza che ce ne si accorga:
una volta accettate le condizioni inziali, lo spettatore si lascia trasportare in un viaggio che è molto più interiore di quanto non facciano sembrare incontri con alieni e supernove.
Così i «cieli bigi» della Bohème non sono in contraddizione con i bagliori spaziali di questa messinscena, a patto di allentare i vincoli del realismo pucciniano per seguire le leggi temporali che il compositore ha nascosto nella trama musicale, che parla di memoria e nostalgia di tempi perduti molto più che di cuffiette. Per dirla con Fedele D’Amico, giustamente incluso nel programma di sala: «La Bohème di Puccini non è la cronaca di un ambiente, come quella di Murger, ma la rappresentazione della memoria idealizzata». E grazie a questo spettacolo si intuisce come l’evocazione della giovinezza sia tanto più efficace quanto più appaia sconnessa e frammentaria, come per questi astronauti condannati a un ritorno al futuro che non lascerà loro scampo.
Peccato che tale lettura drammaturgica non abbia un alleato nella direzione di Manuel López-Gómez, che esegue una Bohème di routine quando sarebbe servita una ricerca di sonorità a volte più avvolgenti, altre volte più lontane e sinistre, a seconda delle condizioni emotive e teatrali sul palco. Buona la Mimì di Nicole Car, anche se il migliore della serata è Benjamin Bernheim, musicalissimo Rodolfo in piena identificazione col suo astronauta. Ottimi anche Artur Ruciński, Andrei Zhilikhovsky e Roberto Tagliavini. Un’ultima curiosità è che non c’è nessun Benoit accreditato: la sua parte la cantano a turno i quattro amici muovendo un fantoccio – il cadavere di un astronauta – un po’ come nel Bunraku, il teatro dei burattini giapponese.
Immagine di copertina © Bernd Uhlig – OnP