A Palazzo Reale è in scena una retrospettiva dedicata ad Agostino Bonalumi: una storia milanese, dagli anni Sessanta al nuovo millennio, con Manzoni e Castellani come compagni di strada
Il bel volto, la bella figura di Agostino Bonalumi ci si rivela in una intrigante intervista girata poco prima della sua morte – avvenuta nel 2013 – e visibile nel percorso della mostra attualmente in corso a Palazzo Reale e al Museo del Novecento di Milano. In questo breve documentario – una dozzina di minuti con testimonianze di Arturo Schwarz, Gillo Dorfles, Tommaso Trini – l’artista mostra efficacemente il percorso della sua ricerca. La sua arte è, nelle sue parole, “ricerca formale e attenzione all’apparenza”. Un incontro tra queste due tensioni estetiche: “La sola forma sarebbe disegno industriale, la sola apparenza ci farebbe ricadere nell’estetica dell’informale”.
Perché il superamento dell’esperienza dell’arte informale in quegli anni – tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta – è per gli artisti più avvertiti un dovere che prende in Italia delle forme molto particolari.
Bonalumi nasce a Vimercate in Brianza nel 1935. Il padre è un pasticciere (fu anche antifascista e partigiano). Nel dopoguerra Agostino segue le sue orme e, per le ristrettezze economiche della famiglia, non riuscirà mai a diplomarsi. Da quando è bambino disegna, disegna furiosamente. E quando può visita Milano.
Sempre più consapevolmente il suo desiderio è quello di diventare un artista. Il curatore della mostra, Marco Meneguzzo, fa un affascinante parallelo tra il percorso di Bonalumi e quello di quella che diventa la sua città di adozione, Milano. Entrambi autodidatti sono alla continua ricerca di una nuova vocazione, di una propria possibile ricostruzione, di una crescita definitiva.
È la Milano leggendaria in cui gli squattrinati artisti si ritrovano in trattorie – in questo caso quella di Pino Pomè – che offrono pasti in cambio di quadri. Qui Bonalumi fa il suo incontro fatale: con Piero Manzoni ed Enrico Castellani. Insieme muovono i primi passi. I loro punti di riferimento sono Lucio Fontana e Alberto Burri e la loro ricerca di una nuova definizione della superficie pittorica.
Ma Bonalumi, che pure fa una delle sue mostre con Manzoni e Castellani, non aderisce fino in fondo al loro progetto. E sebbene il suo percorso si identifichi con quel rigore fecondo che ha caratterizzato un segmento importante dell’arte lombarda, di nascita o di adozione – quella di Castellani ma anche di Dadamaino, Getulio Alviani, Turi Simeti (che da Alcamo e poi Roma raggiunge il capoluogo lombardo nel 1965) per intenderci – la sua sarà sempre una ricerca solitaria, individuale.
Bonalumi, artigiano e brianzolo, trova una sua tecnica che lo pone immediatamente tra le personalità di rilievo della nuova arte astratta italiana. Le estroflessioni. Con grande rigore formale l’artista comincia a modificare le sue tele nelle quali impone delle centinature a cui la superficie, suo malgrado, si deve adeguare. Tele che vengono poi dipinte con tempere viniliche che, soprattutto all’inizio, si rivelano in rigorose tinte primarie: nero, rosso, blu, grigio, bianco. Pitture-oggetto le definisce il critico Gillo Dorfles.
Anche se per l’arte italiana se ne è fatto solo raramente uso, possiamo parlare di un’arte minimale che però, a differenza di quella d’oltreoceano, predilige una capacità più artigianale che concettuale. Una capacità che si combina alla sapienza del grande design milanese quando poi le sue intuizioni si realizzano in grandi ambienti: Bonalumi li realizza alla galleria Bonino di New York e alla mostra Lo spazio dell’immagine a Foligno nel 1967, al Museum am Ostwall di Dortmund nel 1968, nella personale alla Biennale di Venezia del 1970 (dove era stato già presente nel 1966) con una Struttura modulare bianca che è un vero e proprio arredo ambientale.
Nei due decenni seguenti le sue estroflessioni si fanno sempre più vera e propria ricerca sui materiali. È, immagino, la ricerca che attraversa tutta la Milano creativa: nuovi materiali come il sintetico ciré, nuove centinature che diventano vera e propria ricerca di un alfabeto che crea una scrittura personalissima. Sembrano messaggi espressi in una scrittura aliena, riconoscibile e interpretabile per la sua rigorosa modularità. O una partitura musicale in cui intuizione creativa e rigore matematico sembrano fondersi miracolosamente.
Negli anni Settanta e Ottanta il lavoro sulla tela continua a riecheggiare la ricerca che prosegue nel grande design industriale milanese. Le sue pitture diventano più morbide, i colori più ricercati, i grandi ambienti quasi abitabili.
Con il nuovo millennio il percorso dell’artista sembra aver detto tutto. Ma poi c’è una nuova, sorprendente, svolta frutto, ancora, di una rigorosa ricerca di applicazione artigianale. Le sue estroflessioni esprimono adesso un nuovo codice linguistico.
Le tele – a cui si accompagnano sempre più spesso le sculture che esprimono nelle tre dimensioni il codice fondante dell’arte di Bonalumi – cominciano a ricoprire complesse armature di fili d’acciaio i cui giochi e movimenti sembrano esprimere quasi un’estetica gestuale. Non è così. Questi nuovi dipinti, i piccoli bronzi, di straordinario impatto visuale, sono ancora la coerente versione di una ricerca che in più di cinquant’anni di meticoloso lavoro ha saputo manifestare quella “rigorosa creatività” – un ossimoro in fondo – che è la autentica cifra di Agostino Bonalumi.
Per dirla con uno dei suoi critici più acuti, Tommaso Trini, le sue tele diventano “cartografia dell’Universo”.
Bonalumi 1958-2013, a cura di Marco Meneguzzo, Palazzo Reale, fino al 30 settembre.
Immagine di copertina: Agostino Bonalumi, Rosso, 1966