Tra qualche giorno sarà tempo alla Fabbrica del Vapore di Milano della Fiera dell’editoria indipendente. ‘Ogni desiderio ‘è il filo rosso che lega i 250 eventi di questa quinta edizione. In tempi di imperanti semplificazioni e identità anguste, il direttore creativo Giorgio Vasta riflette sulla sostanza sfuggente, complessa e politica del desiderare e sulle tante declinazioni che il tema troverà a Book Pride
L’edizione 2019 di Book Pride (Fabbrica del vapore, Milano 15-17 marzo: qui il programma completo ) è dedicata al tema “Ogni desiderio”. Come si declinano i desideri nella nostra contemporaneità? Ne abbiamo parlato, in una densa conversazione, con Giorgio Vasta, scrittore e direttore creativo della quinta Fiera nazionale dell’editoria indipendente che quest’anno cambia sede, potenzia la sua offerta, ospita 200 editori, mette in programma circa 250 eventi , conta numerose collaborazioni e media partnership, tra cui Cultweek.
Il desiderio in genere viene declinato al singolare. Perché la scelta di dedicare l’edizione di Book Pride di quest’anno a ogni desiderio?
In un certo senso c’è una continuità, non semplicemente ideale, ma direi sostanziale, fra il lavoro che si è fatto un anno fa sul tema “Tutti i viventi” e il tema di quest’anno. I viventi che avevamo proposto l’anno scorso erano tanto i corpi reali quanto quelli immaginari; vivente è qualcosa che ha a che fare con la biologia, ma anche con l’immaginazione, una facoltà in grado di vivificare qualsiasi cosa. Quest’anno, allora, ci siamo chiesti qual è il denominatore comune che lega fra loro i viventi. Questo denominatore comune è proprio il desiderio: i viventi desiderano, ognuno a suo modo, in una maniera che può essere intensa, labile, coerente o contraddittoria. Valeva la pena, quindi, ragionare sul desiderio senza però contenerlo attraverso l’articolo determinativo il, ma facendolo esplodere, e lasciando che si irradiasse in ogni direzione, attraverso l’aggettivo indefinito “ogni”. Il tutto a partire dalla curiosità nei confronti di un’esperienza – il desiderare – che viene spesso idealizzata e data per scontata, quando è invece ambigua, indefinibile e imprecisabile; desiderare può essere costruttivo, ma può anche trasformarsi nell’opposto, in un’esperienza distruttiva: passione e ossessione, il desiderio può essere entrambe.
Come può essere sintetizzato il legame fra il desiderio e la letteratura?
Il desiderio non è uno specchio d’acqua chiarissima e imperturbabile, ma un luogo in cui ci sono quote di oscurità che non indeboliscono la nozione di desiderio, ma la potenziano. Penso all’immagine realizzata da Nicola Magrin per sintetizzare il tema: un cielo blu e azzurro, punteggiato di bagliori bianchi, venato anche da una zona color ruggine, come se si fosse davanti a un turbamento dello spazio. Se si parte da questa immagine diventa più chiaro il rapporto fra la letteratura e il desiderio. La scrittura non può essere considerata, semplificandola, espressione di qualcosa che deriva da desideri sempre nitidi di persone risolte e conciliate con se stesse e con il mondo; un grande testo letterario può nascere dal turbamento e dall’ossessione, e credo che la funzione del libro non sia quella di risolvere problemi, ma di collocarli su un piano più complesso e affascinante. In un certo senso la lettura – e so che può sembrare un’affermazione paradossale dal momento che mi occupo dell’organizzazione di una fiera – rimane un’attività che prevede il ridursi drastico, per l’arco della lettura stessa, della socialità; leggendo non si diventa esattamente antisociali o asociali ma si riduce il dialogo con chi ci sta intorno, per riprenderlo poi su un piano più intenso e senz’altro più complesso generato da quanto la lettura ci ha permesso di assorbire e metabolizzare.
Come ti sembrano essere caratterizzate le retoriche odierne del desiderio?
Le retoriche del desiderio possono essere facilmente manipolate in maniera reazionaria. L’impressione che ho è che in questo momento abbiamo a che fare soprattutto con i bisogni: c’è una semplificazione drastica degli scenari sociali, politici, psicologici, ma questi bisogni così profondamente semplificati (si pensi alle dicotomie noi/loro, dentro/fuori, aperto/chiuso) vengono trattati dalla retorica politica come se fossero desideri da esaudire. Il desiderio non è neutrale, ognuno di noi si assume la responsabilità di dare forma a un desiderio, di descriverlo correttamente nella sua complessità. Qualche giorno fa, durante la conferenza stampa di presentazione di Book Pride, menzionavo una frase che ha ottocento anni. È di Francesco d’Assisi e recita: “Desidero poco e quel poco che desidero lo desidero poco”. Se non ne viene specificato subito l’autore – che è uno di quelli davanti a cui non ci si permette di fare obiezioni – verrebbe subito considerata una frase timida, che non rimanda a un principio di frugalità, come è nelle intenzioni di San Francesco, ma a una paura; una paura considerata sbagliata perché – vuole un certo tipo di retorica – bisogna desiderare ardentemente e altrettanto ardentemente proiettarsi nelle cose. Mi viene però da domandarmi se quelli che stiamo vivendo siano tempi di desideri intensi, o se forse c’è una diffusa timidezza del desiderio, una specie di generale intiepidimento. Mi sembra che buona parte dei nostri desideri siano oggi proporzionati ai tempi stessi, e quindi forse un po’ contratti, anche se ancora, quando li raccontiamo, cerchiamo di descriverli come intensissimi. Ragionare sul desiderio può allora essere anche un modo per ragionare sulle retoriche del desiderio.
Rispetto all’Italia berlusconiana che analizzavi in Spaesamento (2010), è cambiato qualcosa nel rapporto degli italiani col desiderio?
Penso che il principale cambiamento riguardi l’arrivo di Salvini – che è il fatto centrale di quest’anno (e presumibilmente dei prossimi). La sensazione è che Salvini abbia ulteriormente radicalizzato qualcosa che era già iniziato col berlusconismo e che a me, allora, sembrava segnasse un punto di non ritorno; ma c’era ancora margine, c’era ancora la possibilità di andare verso qualcosa di pienamente plebiscitario come l’attuale consenso nei confronti del ministro dell’interno dimostra.
La mia impressione è che Salvini non faccia altro che gestire bisogni – originari, del tutto elementari – trascesi però a volte nella forma di veri e propri desideri. Questi bisogni originari – per lo più organizzati sulle contrapposizioni a cui si faceva riferimento poco fa: noi/loro, dentro/fuori, aperto/chiuso – rimandano a un’idea di identità non semplicemente fissa ma fossile. Dalla prospettiva della retorica salviniana, l’identità è qualcosa di noto e definito e indiscutibile. A questa profonda convinzione di un’identità perfettamente identificata contrapponiamo – e lo facciamo giocando, ma molto seriamente, col tema di Book Pride 2019 – l’idea di un’identità sempre al plurale, ambigua e sfuggente: ogni identità, vale a dire un’identità disidentica a se stessa.
E ancora, provando a ragionare ancora sul desiderio. Ciò che nel berlusconismo era un erotismo grottesco, si è oggi convertito in pragmatismo. Salvini si propone come un garante pragmatico, severo e bonario insieme, che realizza una specie di cortocircuito, invitandoci a desiderare i nostri bisogni. A concepire se stessi e gli altri e il mondo sempre in una prospettiva rasoterra, facendo di questo pensiero elementare l’oggetto di un costante desiderio. Desideriamo strumenti di decifrazione minimi se non involuti, sembra essere la sintesi del discorso salviniano, desideriamo grammatiche altrettanto microscopiche. Desideriamo di avere sempre e solo paura del buio.
Una questione politica fondamentale è legata al rapporto fra desiderio e potere. Una parte del programma è dedicata proprio all’invenzione dei desideri e nel comunicato stampa vi chiedete se “possiamo desiderare diversamente?”. In che senso?
La sezione che potremmo sintetizzare nell’espressione “inventare desideri”, nata da un’idea di Alice Spano, raccoglie suggestioni che provengono in particolare dal lavoro di Paul B. Preciado, che racconta una transizione che non è semplicemente fisica, ma anche di pensiero. E si basa su una considerazione: i desideri stanno all’interno di paradigmi culturali, e questi paradigmi determinano e definiscono la legittimità dei desideri stessi, individuando quelli che non possono essere espressi, quelli che confliggono con il diritto o la morale. È comprensibile che ogni essere umano si muova all’interno del suo paradigma culturale, ma è altrettanto importante che ci siano dei momenti in cui vengano immaginate alternative al paradigma – alternative che siano dilatazioni e sconfinamenti. Inventare desideri va in questa direzione: è un tentativo di ripensare il desiderio, per spiazzarlo e per spiazzarsi. È qualcosa che la letteratura ininterrottamente racconta. Il desiderio del capitano Achab riusciamo a leggerlo facilmente perché ci sembra del tutto evidente: è l’ossessione di catturare Moby Dick (in realtà si fa un torto ad Achab immaginando di poter sintetizzare così rozzamente quello che è il suo desiderio furioso). Ma è soprattutto Bartleby a tornarci utile per interrogarci sull’altrove, sull’altrimenti, sul diversamente. Perché leggendo la novella di Melville si può avere l’impressione che lo scrivano che si sottrae al mondo dicendo “Preferirei di no” se ne stia agli antipodi del desiderio, o che addirittura lo neghi. Ci sarebbe da domandarsi se il rifiuto mite di Bartleby non sia invece un’espressione piena, inaspettata ed enigmatica, del desiderio stesso.
Come vengono declinati i desideri al tempo della precarietà?
Penso a un incontro che fa parte del programma di Book Pride – lo curano Fazi e minimum fax – intitolato “Felicità e confessioni di giovani sospesi”, in cui Cecilia Ghidotti (autrice di Il pieno di felicità) e Sandro Frizziero (autore di Confessioni di un NEET) dialogheranno con Violetta Bellocchio. Un incontro emblematico di una lettura del desiderio precario, osservato dalla prospettiva di una generazione. Quello che mi sembra di riscontrare è che c’è stato un tempo in cui il desiderio proseguiva se stesso nell’immaginazione e nella volontà: desidero, immagino di fare delle cose e voglio, di conseguenza, farle. Il desiderio contemporaneo passa ancora attraverso l’immaginazione, ma poi non si concretizza nella volontà bensì in una condizione più fragile, simile a una specie di involontario velleitarismo. Tutto ciò conduce a una visione del mondo che ha introiettato la persuasione di essere inconseguenti se non del tutto irrilevanti. Ma quello di cui stiamo parlando è ancora più complesso, e per individuare questa complessità non ci si deve neppure allontanare dal quotidiano. Quando osserviamo il display del nostro smartphone, da soli oppure in un luogo pubblico (da soli e in un luogo pubblico, sarebbe forse più esatto dire), una lettura moralistica di quel comportamento spinge a sostenere che in quel momento siamo indifferenti in mezzo ad altri indifferenti (il giudizio è noto: siamo tutti separati, non si comunica più, gli amici sono seduti allo stesso tavolo ma non parlano fra di loro perché ognuno è alle prese col suo cellulare). L’idea che si afferma è che in quei momenti – così lunghi e larghi da coincidere con gran parte del nostro quotidiano – tutto stia accadendo tranne che il desiderio. E invece sui volti di chi fissa il proprio telefono – sul nostro stesso volto – si materializza un sorriso, oppure uno sguardo di disappunto. È il riflesso fisiognomico della nostra ininterrotta vita emotiva. Può darsi allora che in questo momento desiderare e essere indifferenti non siano stati d’animo contrapposti bensì – appare come un paradosso ma forse non lo è – simultanei e compenetrati.
In Spaesamento scrivi: “il desiderio è maleducato”. In che senso?
Se il desiderio non è maleducato non è un desiderio, o per lo meno è un desiderio che accetta di stare dove gli viene detto di stare, riducendosi a ornamento. Ma il desiderio è indocile, irretisce, mette in difficoltà con se stessi. Quello che mi auguro è che Book Pride costituisca un’occasione per ragionare su che cosa chiediamo al nostro desiderio: se ci può stare bene che combaci con le strutture culturali che già esistono, o se invece vogliamo correre il rischio di accorgerci che il nostro desiderio non collima, non corrisponde, è in eccesso o in difetto. È discorde, discrepante, sempre fuori asse. Un desiderio obliquo, o meglio storto. Qualcosa di cui all’inizio possiamo anche vergognarci, perché il desiderio disorienta, ma che poi comprendiamo essere il nostro modo specifico di interpellare il mondo.