Guttuso, Baj, Birolli, Francesco Arcangeli ma anche Anna Magnani, Gina Lollobrigida, il Carosello e la pubblicità del Cinar. BOOM ’60! al Museo del Novecento racconta l’arte contemporanea nell’Italia del boom attraverso la rappresentazione mediatica che se ne faceva nei più popolari canali di comunicazione: rotocalchi, giornali e riviste di attualità illustrata. Per la prima volta l’arte contemporanea entrava nella vita di tutti, tra incomprensione, ironia, impegno divulgativo.
Boom ’60! Anzi Boom ’50, con qualche rete gettata alla fine dei ’40, quando nascono, nell’Italia che cerca faticosamente di ricucire le ferite della Guerra, i primi “rotocalchi”. Per definizione, riviste di ampia tiratura, diffuse nelle edicole per pochi soldi, dove i fatti più disparati di interesse nazionale sono raccontati in articoli in cui «l’immagine tende a prevalere sul testo scritto, e la cronaca ha quasi sempre il sopravvento sulla critica» (dal saggio di Mariella Milan, in catalogo). «L’Europeo», «Vie Nuove», «Oggi», «Tempo», «Settimo Giorno» e «Settimana Incom», la «Domenica del Corriere» di Milano e così via. E poi negli anni Cinquanta «Epoca», «Le Ore», «L’Espresso», «Gente», «Panorama»…
Si occupavano di tutto, gossip, curiosità, cultura, sport e cronaca mondana. Qualcuna, pochissime, di queste storiche testate, sopravvive ancora. E a passare in rassegna la bella selezione di numeri e paginoni esposti sotto vetro nella ricca mostra allestita al Museo del Novecento, si rimane anzitutto colpiti, a distanza di cinquant’anni, dall’alta qualità del materiale di stampa, con impaginature impeccabili, di grande effetto e ottime fotoriproduzioni. Un fattore importante, primario anzi per il senso dell’esposizione, che cerca di indagare come sia stata trattata l’arte contemporanea in questi veicoli di informazione di larga portata.
Fino dall’apparire delle prime testate, non mancano interventi dedicati alle esposizioni o alle nuove tendenze artistiche. Fuori dal linguaggio specialistico dei critici, gli articoli di giornale tastano il polso alle reazioni dei non addetti ai lavori. Della società borghese quindi, questo Proteo in continua formazione che ora sente il diritto di immischiarsi nei fatti d’arte che fino a qualche decennio prima erano appannaggio di nobili e benestanti sfaccendati. Vuole capire, vuole dire la sua. Ma è come un bambino che prima di imparare a parlare, si provasse nella scrittura. Gettato nei dibattiti tra informale e figurativo, tra gli ismi, le avanguardie e le neoavanguardie, senza avere il retroterra storico e culturale per intendere gli irreversibili mutamenti che hanno stravolto il mondo dell’arte tra Otto e Novecento, ha bisogno di una chiave interpretativa. E la trova nell’ironia.
L’articolo illustrato da Paolo Monelli sul numero di luglio 1954 di «Tempo», Un profano alla Biennale, dietro la maschera della satira sembra registrare in presa diretta reazioni di un pubblico incolto di fronte a opere dai titoli poco comprensibili o ripetitive; si fa beffa del linguaggio autoreferenziale dei critici, che in Jean Miro, per esempio, vedono un artista che «ammette l’incidere del segno surrealista sul sogno primitivo». L’ironia permette di colmare i vuoti e le incomprensioni, le disabitudini al lessico delle nuove tendenze artistiche. Si instaura così un rapporto che durerà nel tempo: gli stessi sberleffi, le stesse battute, le ritroviamo più di due decenni dopo in Le vacanze intelligenti, episodio diretto da Alberto Sordi, sempre in visita alla Biennale nel film corale Dove vai in vacanza, del 1978.
È comunque una rivoluzione, non tanto piccola, che si evolve negli anni Cinquanta, quelli del vero boom economico e sociale, quando anche l’arte comincia a diventare un bene di consumo. Tra le pubblicità della Plasmon e dell’Alitalia, del Borotalco o del Bel Paese, trafiletti sull’approcciabilità economica di quadri e sculture di artisti emergenti o affermati. Si possono acquistare anche a rate o tenere in affitto, come i frigoriferi e le automobili. E i servizi sulle «ragazze choc di via Margutta», le ‘marguttine’, astrattiste, snob, intellettuali: la bohème parigina trasbordata tra i cortili e le osterie romane dove William Wyler ha appena girato Vacanze romane, tratteggiata di vene esistenzialiste dalla penna di Oriana Fallaci, in un articolo su «L’Europeo» del settembre 1954.
Il messaggio trasmesso è che in un rispettabile soggiorno borghese non può mancare un pezzo d’arte, poiché «in una cornice d’eleganza, a ogni casa, a ogni ambiente dà un’impronta di buon gusto, di personalità», come recitava a mo’ di mantra la frase conclusiva di una serie di Caroselli sul brandy senior Fabbri affidati nel 1957 a Luciano Emmer, pioniere del documentario d’arte di fama internazionale, e interpretati da artisti di estrazione soprattutto romana: Capogrossi, Levi, Gentilini, Guttuso, Anna Salvatore… Intanto si impara a riconoscere un Guttuso da un Capogrossi. Ma non solo. Artisti e opere di tempra diversa diventano emblematici dei diversi temperamenti dei loro collezionisti. Le inquadrature insistite, per esempio, sui quadri di Morandi in casa di Steiner ne La dolce vita non sono esornative, ma corollario dell’individuazione di una precisa tipologia di intellettuale.
La leva che smuove all’interesse per gli artisti è il divismo contagiante. I volti di quelli che fino a qualche anno prima erano per i più perfetti sconosciuti, cominciano ad apparire sulle pagine delle riviste, accanto a quelli degli amati attori che si vedevano alla televisione e nelle pubblicità. E che proprio da quegli artisti si fanno ritrarre. Sandra Milo in un busto di Francesco Messina, la Magnani in un dipinto di Guttuso, «Sette metri di Sofia» Loren per lo scalpello di Assen Peikov, «scultore bulgaro di via Margutta specializzato in simulacri di dive», impegnato nell’impresa, ampiamente documentata da «Tempo» (marzo 1955), di realizzare una colossale statua della diva di Pozzuoli. La Lollobrigida sempre al centro dell’attenzione, ansiosa di posare per pittori e scultori di ogni sorta. Si atteggia leziosa e un po’ passée per Jacob Epstein: sembra un busto di Carrier Bellouse incarnato (su «Epoca», 26 settembre 1954). Posa per ore e ore, con trucco e parrucco sempre impeccabili. Addirittura per 26 pittori in una sola volta, a Milano, nel 1955. E non sono nomi da poco: Sassu, Cassinari, Ajmone… Lei preferisce che la si ritragga «fedelmente».
Sulla controcopertina del settimanale «Tempo» artisti e nomi noti della cultura sono fotografati in compagnia di attrici e soubrettes. E presto l’interesse per i fatti più pruriginosi o insignificanti della vita dei personaggi dello spettacolo si trasmette alle esistenze, più o meno sbandate, degli artisti. Il modello, naturalmente, è Picasso, divo per antonomasia, che colleziona una serie di nomignoli da fare invidia al diavolo: «barbablù», «l’immortale da vivo», «l’intramontabile dell’amore»… Artisti dalle vite romanzesche, scapestrate e bohemienne, genialmente dissolute, affascinano come eroi da fotoromanzo. Modigliani in testa, con i suoi lineamenti «da divo del cinema», eternati subito dopo la morte nel volto di Gérard Philipe, interprete del biopic Montparnasse 19 di Jacques Becker, uscito nel 1958, in concomitanza con la grande retrospettiva offerta al «maudit Modì» livornese al Palazzo Reale di Milano.
Si vuole entrare nella casa degli artisti, come in quella degli attori di Hollywood o Cinecittà. Dino Buzzati in visita divertita allo studio parigino di Niki de Saint Falle (su «La Domenica del Corriere» del 1961), Raffaele Carrieri da De Chirico in Piazza di Spagna, nel 1958, incuriosito dai suoi cinque bagni (misteriosi?) e dalle autorevoli poltrone (su «Epoca»). Il Pictor Optimus, ormai celebre, partecipa lo stesso anno al Lascia o raddoppia di Mike Buongiorno, dichiarando di non amare la pittura di Modigliani, con processo mediatico a seguito. Nel decennio a seguire vive anche di rendita della propria immagine. Arbasino lo ricordava «imbalsamato» ai tavolini del caffè Greco «fra le vecchiette che lo chiamavano maestro. E lui: “chiamami Peroni, sarò la tua birra”».
Proprio Lascia o raddoppia è invece al centro di una polemica (su «L’Europeo») che trova per una volta d’accordo due nomi eccellenti della storia dell’arte italiana, Roberto Longhi e Lionello Venturi: per entrambi programmi di questo tipo (oggi tornati di gran voga) sono oltremodo dannosi per il concetto stesso di cultura. Longhi, Venturi… Non sono solo giornalisti o critici di second’ordine a esprimersi sui fatti artistici. Gli addetti ai lavori, anche i più impegnati, si accorgono delle potenzialità del rotocalco. Francesco Arcangeli, per esempio, recensisce l’esposizione alla GAM di Roma della collezione del mercante bresciano Guglielmo Achille Cavellini, una delle prime di quadri astratti in Italia: quadri «difficili», di artisti come Birolli, Santomaso, Afro, ma da non considerare «segnacci» o «sgorbi», in quanto segni «del carattere di una generazione». Gli inserti monografici collezionabili, come quelli curati per «Epoca» da Raffaele Carrieri, stanno a monte dei fascicoli, di alto impegno divulgativo, poi diffusi autonomamente, tipo i fortunatissimi «Maestri del Colore».
Risuonano tra le colonne e gli elzeviri le polemiche tra arte astratta e figurativa, che si trascinano fin dentro gli anni Sessanta, quando l’editoria specializzata ha liquidato la questione. E ancora oltre la soglia del 1964, l’anno che segna, con la vittoria di Rauschenberg alla Biennale, lo sbarco della Pop Art americana in Italia. Lingue pungenti, più di quelle dei critici di trincea, che non rivolgono strali avvelenati solo ai paladini dell’informale, ai pittori di «stracci e buchi», agli scultori di chiodi e ferraglia. Anche il ritorno all’oggetto di Enrico Baj dopo il suo periodo nucleare, per esempio, proposto proprio alla Biennale del 1964, è liquidato su «Epoca» come «troppo facile e sbrigativo».
Non è una controstoria dell’arte contemporanea, ma una cronaca parallela, di cui dovrebbe tenere conto, come giustamente afferma Antonello Negri in catalogo, «chi scrivesse oggi una ‘letteratura artistica’ dell’età contemporanea». Una mostra tutta da leggere, lo avrete capito, ma anche da guardare, con la bella selezione di opere raccolte al piano inferiore del museo, le stesse riprodotte sulle pagine delle riviste. E ancora una volta si rimane sorpresi dal confronto virtuoso tra l’originale e le fotoriproduzioni, da fare invidia all’arredo iconografico delle tante, troppe, riviste ‘specializzate’ di oggi, vendute spesso a prezzi spropositati.
BOOM 60! Era arte moderna, a cura di Mariella Milan e Desdemona Ventroni, con Maria Grazia Messina e Antonello Negri, Museo del Novecento, fino al 12 marzo.
Immagine di copertina: Alberto Sordi alla Biennale del 1978 in una scena di Le vacanze intelligenti. Credits: Cameraphoto, Modena, AAF