Un pescatore, un vetraio, un pittore e una performer raccontano una Burano che non si vede ad occhi turistici, la Burano di oggi e di ieri e la loro quotidianità in laguna. Un documentario che sta ottenendo vari premi che restituisce vita vera e senso a chi abita quei luoghi invasi dal turismo
Venezia è una città vinta. Barbari di ogni dove la calpestano; fanno scempio della sua immagine sui social; ne alterano i suoni; ne intasano i dedali di calli e di canali. Trasformano ogni casa in alloggio, trasformano ogni bottega in bacaro, bruciano polvere di stelle all’altare del consumo. È una marea lunga che inizia con le prime ore del mattino e si ritira al tramonto. Venezia però è una città viva. Sono le 19, arriviamo al Giorgione – uno dei pochi cinema rimasti in città – e ci sentiamo dire al botteghino che è tutto esaurito. Sala piena. La sala grande. Cominciamo a guardarci intorno un po’ stupiti, un po’ compiaciuti da un successo tanto spudorato. Ci riconosciamo nei volti di chi ancora Venezia la sente sua, di chi vuole vedere quel documentario di cinema indipendente che pare abbia trovato la voce giusta per raccontare alla gente di laguna chi è, attraverso degli archetipi riconoscibili e riconosciuti.
Sentiamo la voce del bigliettaio gridare: “Si replica, tornate alle otto, facciamo una seconda proiezione”. Ci allontaniamo quel tanto che basta per un’ombra e un cicchetto, commentando la bellezza di una sala gremita. Noi, che in questa città in bilico nel tempo possiamo affidarci solo al ritmato battere dei nostri passi per resistere alla pigrizia dell’home video, abbiamo riempito la sala al punto da far proiettare di nuovo Boreana. Erano altre le invasioni barbariche che spinsero la gente di terraferma a varcare la porta Boreana verso un’isola che successivamente avrebbe preso il suo nome: Burano. I 45 minuti di documentario diretti da Manuel Toffolo e Jordan Carraro mettono in scena quattro personaggi: Massimo Tagliapietra, un pescatore cowboy; Mariarosa Vio, una performer in bilico tra velma e velluto; Andrea Tagliapietre, pittore che imbelletta il suo personale grammelot con il catrame; Luciano Seno, che costruisce cristi col fuoco. Il dialogo è serrato, costante, ritmato, osservato dall’alto. Il silenzio e il vuoto fanno risuonare cori di realtà così sincere per chi vive la laguna, da permettere il riconoscimento.
Dalla narrazione dei personaggi emerge una donna che, per prima, guida il barchino in una famiglia di tutti maschi; non ci si scaglia contro un patriarcato astratto e ideologizzato, qui la lotta è corpo a corpo, si combatte contro una tradizione millenaria difficile a morire, ogni centimetro di dissenso è una conquista che emerge dalla serenità del volto di chi ha vinto la sua battaglia. Massimo il pescatore ci racconta di quanto la pesca sia cambiata, di come lui non abbia scelto strategie semplici, lui deve stare sul pezzo perché la moeca (ndr il granchio durante la muta) non aspetta nessuno, se non te la vai a prendere al momento giusto hai buttato via una settimana di lavoro. Il drone poi insegue Andrea Tagliapietra, il pittore che danza, quello di cui si osserva prima la camminata dall’alto e poi quei dettagli sul movimento dei piedi che presuppongono un gesto del corpo che si fa sintesi sul dorso della tela. Lui e Mariarosa Vio, coppia nell’arte e nella vita, sono in simbiosi con una laguna che dà loro pesca, tramonti, luoghi remoti in cui perdersi per dare forma alle proprie intuizioni artistiche. Che sia pittura o sia performance, nasce sempre dalla trasformazione di una realtà quasi primordiale che non si riesce a tenere lontana.
Squarcia la parete del tempo Luciano Seno, con i suoi 86 anni di vita spesi tutti a destreggiarsi tra l’acqua e il fuoco. L’acqua dei ricordi d’infanzia, quella con cui ci si doveva confrontare, quella in cui si nuotava in mutande in bilico tra le assi da bucato sottratte alle mamme; quella che ti portava all’isola di San Francesco del Deserto, dai frati che passavano il pasto. E dalla bocca di porto era passato alla bocca del fuoco, abbagliato e ammaliato da quegli uomini che plasmavano il vetro facendone sculture piene di fragilità e potenza. Adesso, dopo anni di fornace, continua a sciogliere le bacchette sottili del lumista, faticando a staccarsi da una pratica che ne ha forgiato la storia.
Ora, dopo la sera del tutto esaurito, i riconoscimenti si susseguono: due premi vinti al Caorle Film Festival; 4 premi vinti al Mei International Film Festival (India): Best Documentary, Best Original Score, Best Director e Best Producer. Selezione ufficiale al Matera International Film Festival e all’Asti International Film Festival. Boreana è un cammeo in cui gli abitanti di qui non stentano a riconoscersi; c’è tutto un gioco di specchi, un rifrangersi dello sguardo negli occhi di quei tipi umani in cui ci si imbatte ogni giorno. Le visioni col drone permettono di vedere quello che da terra ti è precluso, mentre le soggettive creano intimità e vicinanza. È un documentario onesto, sincero, spontaneo, che restituisce un po’ di dignità ai nativi, ormai rinchiusi in una riserva viva più che mai.
Boreana, documentario di Manuel Toffolo e Jordan Carraro