Boston Marriage: la rappresentazione dell’indicibile

In Teatro

Arriva anche a Saronno Boston Marriage: una commedia piena di ritmo e acume, che sotto la leggerezza svela le ferite dell’amore: grazie a interpreti eccellenti

Maschere grottescamente divertenti che si muovono a passettini tra svolazzi di tessuti. Fermandosi al primo sguardo potrebbero essere soltanto questo, le protagoniste di Boston Marriage, che continua una tournèe lunghissima arrivando al Teatro Giuditta Pasta di Saronno. Marionette vive di una danza lieve e piena di guizzi dentro una vezzosa scena fin de siècle, un spazio di finzioni raffinate ed esposte dalla regia di Giorgio Sangati, dove le mura sono – dichiaratamente – pezzi di cartone, e le telecamere puntano contro soltanto quel che si vede. Una scatola pastello dentro cui si muovono figure tutte affettazione. Sotto cui, tuttavia, affiora la disperazione. Di chi è costretto a supplicare l’aiuto di un ex amante per proteggere un giovane amore, e di chi acconsente pur di non perdere il resto di un antico sentimento a cui ha votato la propria vita. Che si tratti di due donne, per altro non più giovani, è insieme incidentale e straordinario. Un legame impossibile da recidere e insieme retto in nome della consapevolezza che, se nel New England di fine Ottocento, il “Boston Marriage” – la convivenza, tra due donne economicamente indipendenza – è tollerato, nel mondo fuori da quella casa piena di ninnoli una donna innamorata di un’altra, molto più giovane di lei, non lo sarebbe mai.

Nè è destinata a durare l’indipendenza economica cui entrambe guardano con nostalgia, se ci si fa contagiare dal desiderio di un miglior stile di vita: così, nello spazio sicuro in cui in teoria non c’è spazio per i maschi – “gli uomini esistono solo per essere ingannati” –  si è costrette a farli entrare in forma di protettori, amanti bianchi pronti a soddisfare i vezzi, ma senza rischiare: il prezzo, inconsapevole, lo paga un’altra donna, attraverso una collana. Intorno a questo pegno si costruisce il gioco degli equivoci che si rincorrono, le schermaglie – tutte amorose – che le donne, Ann e Claire, si scambiano, cercando – in fin dei conti – di ritrovare una nuova libertà, o di non perdere il senso della propria vita. A costo di farsi perfide o piegarsi a goffe proposte più o meno esplicite per non essere tagliate fuori, di cedere senza svendere il proprio orgoglio a una follia d’amore che non si può dire ma al contempo accetta di non avere niente in cambio.

Forse è questa la verità travestita accuratamente di finzione, di un linguaggio e di pose tutte teatrali che per funzionare, sulla scena, hanno bisogno di fuoriclasse, come Maria Paiato, una Ann esilarante in tutta la sua svagata devozione all’ex compagna, che Mariangela Granelli costruisce come una Claire solo apparentemente compassata e (forse?) travolta dal proprio sentimento. Ci vuole uno straordinario mestiere, per riempire la scatola, in cui sono chiuse, di ore di conversazioni oziose, dentro cui è necessario setacciare il vero e il falso: e facendole scivolare via, quelle ore, leggere e gustose, senza rendere pesante il vuoto di lingue forbite che rendono giustizia, anche in commedia, del teatro di parola nella sua più pura surreale applicazione.

Del gioco d’amore si ride, della verità tra le righe di parole irrealistiche un po’ ci si commuove: non è certo difficile ritrovarla, tolte le parrucche e gli abiti d’epoca, negli amori di ciascuno. Ma non c’è soltanto questo, nella parentesi di divertimento che lo sceneggiatore Mamet si è concesso portandole in scena. C’è un’epoca che, accanto ad amori che cominciano a dire il loro nome, rende ancora evidenti il conflitto di classe tra una ricchezza decaduta e giudicante – che anche nella disperazione non rinuncia a rimarcare la propria violenta superiorità che alla “servitù” non riconosce neanche il diritto al nome, e un proletariato che prende i tratti pragmatici di una domestica ancor più surreale delle sue “signorine” – una esilarante Ludovica D’Auria – che pur pagando a sua volta un prezzo al maschile a cui si affida – a suo modo continua a scegliere. Il mondo che verrà, sembra suggerire con la sua goffa sincerità, è di chi non rappresenta.

Boston Marriage strizza l’occhio a Oscar Wilde e usa con sapienza dell’ironia affilata del Genet delle Serve, adattando al XX secolo le atmosfere di Sirk. Ne viene un gioco teatrale riuscitissimo, grazie alla qualità delle interpreti e alla raffinatezza di quel che appare più lieve: è proprio dentro alla dichiarata finzione che si scoprono le fragilità, e nella risata frammenti di dolore dal sapore antico e dalla forza contemporanea.

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