Due secoli di canzoni che hanno fatto la storia del rock. Dalla seconda metà del ‘900 agli albori del 2000 il grande artista, musicista ma non solo, ha regnato sulla musica contemporanea
Raccontare in breve la carriera di David Bowie? Semplicemente non si può, perché la quantità di passaggi che Mr Jones ha attraversato nella sua carriera sono impossibili da riassumere senza perdere di senso e profondità, due caratteristiche fondamentali del nostro caro e amato Ziggy Stardust.
Tutto comincia a Londra. Una cugina ballando lo fa innamorare del rock’n roll, una rissa a scuola gli procura il trauma all’occhio sinistro che cambierà colore dando a David uno dei tanti tratti esclusivi della sua vita artistica.
Anni di tentativi, ricerca, teatro e poi arriva – poco prima dell’Apollo 11 – la storia extraterrestre di Space Oddity: chitarra acustica, malinconia di un ragazzo solitario perso nello spazio, dolcezze e melodie perfette per una canzone che diventa il primo dei tanti biglietti da visita della sua carriera.
E poi si vola: The man who sold the world – omaggiata in seguito dai Nirvana – Hunky Dory e il successo planetario di Ziggy Stardust, che lo trasforma in un’icona ambigua e bellissima, tanto maschio quanto femmina, tanto rock quanto struggente nella sua bellezza malata e glam.
E ancora la corsa senza fine nell’America di Aladdin Sane, le cover di Pin Ups, il rock di Diamond Dogs e il funky elegante e androgino di Young Americans, con quella copertina sensuale e inquietante.
Bowie cambia, perché se non cambia non vive: diventa il Duca bianco di Station to Station, e spinge all’estremo la sua vita di eccessi, fatta di cocaina e deliri derivati, ma anche di brani cantati divinamente come Wild is the wind, già di Nina Simone.
Bowie capisce che è al capolinea di una fase, e quindi cambia di nuovo: va a Berlino, con l’amico Iggy Pop a cercare suoni e vita di frontiera nella città simbolo del mondo diviso. Con Brian Eno e Tony Visconti dà vita a tre album diversi e “totali” nella loro bellezza e novità, con cui si conferma sempre più avanti del tempo che vive. Heroes (1977) non è forse un pezzo new wave nato quando il termine stesso veniva coniato per definire un genere?
Più avanti di tutti, nel 1979 firma un disco bellissimo come Scary Monster, album cerniera con gli anni 80. Bowie, con Let’s dance, disco prodotto dal chitarrista degli Chic Nile Rodgers, battezza al meglio un decennio che anteporrà alle idee l’immagine delle idee stesse.
Negli anni 80 ci sono anche Labyrint e Absolute Beginners, ovvero film dove Bowie appare e firma pezzi importanti. Ma sono anche gli anni in cui David un po’ defilato canta e fa cantare al mondo cose come Under pressure con i Queen o This is not america con Pat Metheny.
Un gigante che sul finire degli anni 80 cerca nuove strade. Ma fa fatica a trovarle, o più semplicemente le sue idee e quelle del grande pubblico hanno cominciato a prendere strade diverse. Nel 1987 arriva Never Let me down, a seguire l’elegante e potente esperimento con una band – Tin Machine – che però non lo porta dove aveva sperato. E poi il glorioso ritorno con Brian Eno per Outside, la techno jungle di Earthling, Heaten, Reality… dischi che non hanno mai raggiunto il livello dei precedenti. Ma Bowie è sempre rimasto regale nella sua essenza di artista, con lo sguardo sempre rivolto a quello che sentiva e che voleva raccontare.
Solo dei seri problemi di salute lo fermano nel 2004 nel mezzo di un tour europeo. Poi qualche apparizione e anni di silenzio, da cui esce nel 2013 con The next day, album di dolce e amara consapevolezza del tempo che passa e della voglia di disegnare ancora il futuro.
E poi il finale, con un colpo di teatro che solo i grandi artisti sanno mettere in scena: un album bello e dolente come Blackstar che esce il giorno del suo compleanno, tre giorni prima della sua morte. Perfetto, lucido e unico, elegante e intelligente come solo David Bowie ha saputo essere. Tutti abbiamo un pezzo di Bowie dentro, adesso siamo più soli nel coltivarlo.