Il grande chansonnier, che metteva in scena un teatrino di fornicatori e irregolari, si definiva anche il pornografo del fonografo. Tradotti in italiano da De André e Nanni Svampa in memorabili versioni (Il Gorilla, El Testament per citarne alcune), i suoi versi accompagnarono la crescita di almeno un paio di generazioni del secolo scorso. Ma possono essere motivo di godimento e riflessione anche oggi
Scrivere di Georges Brassens (1921-1981), a cent’anni dalla nascita e quaranta dalla morte, mi riporta alla mia giovinezza. Me lo fece ascoltare per la prima volta negli anni ’60, avrò avuto quindici sedici anni, un amico di Sassari che studiava medicina e cantava le sue canzoni, accompagnandosi alla chitarra. Mentre me le traduceva, colpivano le mie orecchie incolte versi carnali e strafottenti che prendevano di mira “les brave gens” e a calci in culo finché “una natica diceva merda all’altra” il tirchio che rifiutava il funerale a un poveraccio. Canzoni che avevano simpatizzato, negli anni ’50 dei nostri papaveri e papere e delle canzoni caste e asessuate che facevano volare le colombe bianche e marciare i vecchi scarponi, con i ragazzi che osavano i loro primi amori sulle panchine. Inventando persino neologismi come “ventripotents”, per sfottere i grassi borghesi. Versi teneri e mordaci à la Prévert, come in Les amoureux des bancs publics, anno di grazia 1954, quasi settant’anni fa.
La gente dallo sguardo corrucciato
pensa che le panchine verdi sui marciapiedi
siano fatte per gli invalidi e per i panzoni.
Ma è un’assurdità perché, a dire il vero,
sono lì, lo sanno tutti, per accogliere
per un po’ gli amori debuttanti.
Gli innamorati che si sbaciucchiano sulle panchine,
sulle panchine, sulle panchine,
fregandosene dello sguardo imbarazzato dei passanti onesti,
gli innamorati che si sbaciucchiano sulle panchine,
sulle panchine, sulle panchine,
dicendosi dei patetici “Ti amo”,
hanno dei visetti molto simpatici.
Due anni prima, nel 1952, Brassens aveva esordito con La mauvaise reputation, facendo saltare la mosca al naso ai “passants honnêtes”, ai “ventripotents”. La canzone, ça va sans dire, era stata bandita a lungo dalla programmazione radiofonica.
Al paese, non lo dico per vantarmi,
godo di cattiva reputazione.
Che mi dimeni o che resti immobile,
passo per un non so che.
Eppure non faccio torto a nessuno,
seguendo la mia strada di bravuomo.
Ma i perbenisti non amano che
si segua una strada diversa dalla loro…
Tutti parlano male di me,
tranne i muti, ovviamente.
Il giorno della festa nazionale
me ne resto comodo a letto.
La musica che marcia al passo
non è cosa che fa per me.
Eppure non faccio torto a nessuno,
se non ascolto la tromba che squilla.
Ma i perbenisti non amano che
si segua una strada diversa dalla loro…
Tutti mi segnano a dito,
tranne i monchi, ovviamente.
Quando m’imbatto in un ladro sfigato,
inseguito da un tanghero,
allungo la gamba e, perché tacerlo,
il tanghero finisce lungo disteso.
Eppure non faccio torto a nessuno,
facendo scappare i ladri di polli.
Ma i perbenisti non amano che
si segua una strada diversa dalla loro…
Tutti si scagliano contro di me,
tranne quelli senza gambe, ovviamente.
Non c’è bisogno di essere Geremia,
per indovinare la sorte che mi attende:
se troveranno la corda adatta,
me la metteranno al collo.
Eppure non faccio torto a nessuno,
seguendo le strade che non portano a Roma.
No, ai perbenisti non piace che
si segua una strada diversa dalla loro…
Tutti accorreranno a vedermi impiccato,
tranne i ciechi, ovviamente.
Ecco, in queste due canzoni degli esordi c’è già tutto Brassens. L’anarchico piccolo-borghese e individualista che non ha nessuna voglia di attentare ai re e ai presidenti, che non intona “Figli dell’officina, o figli della terra, già l’ora s’avvicina di una più giusta guerra” e vuole vivere in pace, ma non ama il prete, il poliziotto e il giudice. Che non ha simpatia per il borghese, il bigotto e tutti i dogmatici e gli integralisti (“Gloire à qui n’ayant pas d’ideal sacro-saint, se borne à ne pas trop emmerder ses voisins!” canterà in Don Juan) e ne ha invece molta per gli ultimi, i contadini sfiniti dal lavorare la terra altrui come il Pauvre Martin, i poveri generosi che donano senza pensarci il poco che hanno come il protagonista della Chanson pour l’Auvergnat, gli sbevazzoni di Le bistrot (se ne ricorderà il De André della Città vecchia) e le prostitute che lo ringrazieranno pubblicamente, negli anni ’80 in cui il femminismo farà le sue incursioni anche da quelle parti, per avere preso le loro difese nella durissima La complainte des filles de joie degli anni ’60:
Sono disprezzate dalla gente,
strapazzate dai piedipiatti
e minacciate dalla sifilide, ve lo dico io,
minacciate dalla sifilide.
Benché facciano l’amore tutta la vita
e si sposino venti volte al giorno
non si godono mai la festa, ve lo dico io,
non si godono mai la festa.
Figlio di una scema e di un idiota,
non ridere della povera Venere,
della povera vecchia troia, te lo dico io,
della povera vecchia troia.
C’è mancato poco, caro mio,
che questa puttana non fosse tua madre,
questa puttana che prendi in giro, te lo dico io,
questa puttana che prendi in giro.
Chi è Georges Brassens, che a partire dagli anni ’50 mette a soqquadro la canzone francese assieme al belga Jacques Brel (1929-1978) e al monegasco Leo Ferré (1916-1993)? È il figlio di Jean-Louis, muratore ateo e anticlericale, e di Elvira Dagrosa, cattolica praticante originaria della Basilicata. Di un prigioniero di guerra e di una vedova di guerra, imprinting familiare che farà di lui un agnostico e un antimilitarista radicale come il grande Jean Giono (negli anni ’70 una sua canzone, Les deux oncles, dedicata a due immaginari zii che tenevano uno per i crucchi e l’altro per gli yankees e ci hanno lasciato le penne, mentre il nipote che non simpatizza per nessuno è ancora vivo, susciterà polemiche immense, con i comunisti del Pcf che gli daranno del qualunquista di centro-destra). Un ragazzo di Sète, nel sud della Francia, nella cui battigia chiederà di essere sepolto con la commovente Supplique pour etre enterré dans la plage de Sète (lo accontenteranno ospitandolo nel cimitero dei poveri che è più vicino alla spiaggia di quanto non lo sia il cimitero marino cantato dal concittadino Paul Valéry in uno dei più alti poemetti del ‘900). Che non termina le scuole perché, dopo una serie di furtarelli nelle case dei compagni ricchi, lo espellono e lo mandano a fare un po’ di galera (se ne ricorderà in Les quatre bacheliers).
Operaio alla Renault nel 1942, Brassens è deportato in Germania nel campo di lavoro obbligatorio di Basdorf, nei pressi di Berlino. Dopo la guerra, date alle stampe una raccolta di versi e due romanzi senza gloria, si mette alla prova come autore di canzoni. La fortuna gli arride quando, nel 1952, Hélène Rigon in arte Patachou, cantante di qualche fama e padrona di un club a Montparnasse, interpreta le sue prime composizioni e lo sprona a mettersi in gioco come interprete.
In una delle sue prime esibizioni lo nota il discografico Jacques Canetti, che lo mette sotto contratto alla Philips. È l’inizio del mito di un artista scontroso e timido che sulla scena suda come muratore intento a costruire un muro. Di un artista abitudinario e contento di quello che ha: la Philips resterà la sua casa discografica per tutta la vita e lui non chiederà mai ritocchi al contratto, provvederà Canetti ad aggiornare le royalties. A Canetti, Brassens resterà fedele anche per i concerti: nel suo Bobino, una bomboniera da 900 posti, si esibirà per tutta la vita, lasciando Parigi sempre malvolentieri e sempre meno nel corso degli anni.
Placida e appartata anche la sua vita privata: negli anni della guerra si è stabilito dai coniugi Jeanne e Marcel Plantu, lei una bretone che si porta in casa tutti i gatti e gli animali abbandonati del quartiere, lui l’alverniate generoso al quale dedica la celebre canzone. È una casa senza luce né acqua corrente al 7 di Impasse Florimont, nel XIV arrondissement, Brassens con i suoi primi guadagni la farà sistemare, infine la acquisterà per regalarla ai padroni di casa e, morti loro, al suo uomo di fiducia Pierre Onteniènte detto Gibraltar, compagno di prigionia in Germania. In quella casa di periferia Brassens, ospite riconoscente e generoso, vivrà sino agli anni ’60: molte foto lo mostrano mentre, a torso nudo (è un omone: un metro e ottanta, cento chili), si lava in cortile, o mentre mangia alla tavola comune. Intanto si è accasato a modo suo: nel 1946 ha incontrato Joha Heiman, una divorziata d’origine estone che sarà sua compagna di tutta una vita. Però non si sposeranno (celebre la sua Non-demande en mariage: ho il grande onore di non chiedere la tua mano) e non vivranno sotto lo stesso tetto. Ognuno a casa sua, insieme per i fine settimana e le vacanze, con il nutrito plotone di amici che sono la vera famiglia di Brassens (Les copains d’abord, gli amici prima di tutto è, in Francia, la sua canzone più popolare).
Non muterà, al massimo addolcendosi nei testi, neppure il suo stile: canzoni accompagnate da due chitarre e da un contrabbasso che qualche volta ha accenti da violoncello (un esempio fra i tanti è la meravigliosa Pensées des morts da Alphonse de Lamartine, che da noi sarebbe come mettere in musica Leopardi o Foscolo, ma Brassens ha musicato poeti come Victor Hugo, François Villon, Paul Fort, Antoine Pol, Jean Richepin). In Francia diventerà un monumento nazionale, un Asterix bonario e scontroso che, con il suo anarchismo placido, toccherà corde profonde della gauloiserie: l’anticonformismo di chi non vuole il suo spazio privato invaso, lo scetticismo di chi diffida degli assoluti metafisici o secolari (“Morire per delle idee, l’idea è affascinante, per poco io non morivo senza averla mai avuta, perché chi ce l’aveva, una folla di gente, gridando Viva la Morte proprio addosso mi è caduta” tradurrà appropriatamente Fabrizio), una certa idea di virilità gioiosamente predatoria (ma, va detto, con il convinto assenso delle prede, e con molto rispetto per loro), un teatrino delle corna e delle oscenità (“Sono il pornografo del fonografo, il mascalzone della canzone” cantava lui) fatto per divertire e, in tempi in cui ancora scandalizzarsi e sturarsi le orecchie poteva essere esercizio utile, pour épater.
È l’aspetto che credo sia più invecchiato della sua arte: l’insaziabile di Embrasse-les tous che si concede a tutti come la Bocca di Rosa di De André (ma il ritornello “Baciali tutti, baciali tutti, Dio riconoscerà i suoi” è irresistibile, con il suo veleno anticlericale che riecheggia l’ “Ammazzateli tutti, Dio riconoscerà i suoi” del vescovo Arnald Amaury nella sanguinosa crociata della Chiesa contro gli albigesi) temo sia una fantasia maschile che ha generato forse più pornografia che liberazione. Erano anni bigotti e repressi, quelli in cui Brassens metteva in scena il suo teatrino di fornicatori e irregolari: erano anni in cui, anche da noi, una tetta in copertina era “il progresso”. Più tardi sarebbe diventata, con maggiore esattezza e verità, segno di mercificazione del corpo femminile. E gli uomini si sarebbero scoperti, con maggiore aderenza alla realtà, più inadeguati che onnipotenti.
Con tutto ciò, senza Brassens dalle nostre parti non sarebbe sbocciato il genio di Fabrizio De André. Che da lui apprese il rispetto e l’amore per i cani perduti senza collare e che fu suo fedele traduttore (Il gorilla, Marcia nuziale, Le passanti, Nell’acqua della chiara fontana, Delitto di paese, Morire per delle idee). Né avremmo avuto le smaglianti, felicissime versioni milanesi di Nanni Svampa. Non è piccola cosa. Georges Brassens è invecchiato, era inevitabile. Ma è invecchiato bene.