Breakaleg, l’occhio di Laila per il teatro

In Weekend

Il progetto fotografico di Laila Pozzo coglie gli attori mentre stanno per entrare nel loro personaggio. Cinquanta ritratti in mostra all’Elfo Puccini

Breakaleg dalle parti della regina Elisabetta è un’espressione benaugurante e un po’ scaramantica, di quelle che i teatranti si fanno prima di salire sul palco con un pizzico di malizia («A furia di inchinarti per gli applausi, amico, vedrai che ti si spaccherà una gamba!»). Qui, in quel di Milano, è il nome di un progetto fotografico che per due settimane, dal 21 ottobre al 4 novembre, si farà mostra presso gli spazi del teatro Elfo Puccini. Una cinquantina di immagini, cinquanta ritratti di attori, o meglio, di personaggi, catturati spesso qualche attimo prima che il sipario si apra.

Laila Pozzo, l’occhio e la mente dietro l’obiettivo, nel suo studio milanese è intenta a curare gli ultimi dettagli tra una sfilza di fotografie appese, un servizio in allestimento e una lunghissima fila di poltroncine di legno recuperate da chissà quale cinema d’altri tempi.

Cos’è Breakaleg?
È una specie di blog fotografico teatrale dove vengono pubblicati principalmente ritratti di scena, ma dove è possibile trovare anche gli scritti di vari contributors, persone che hanno visto gli spettacoli e a cui chiediamo di raccontarli con il loro personalissimo taglio. Si va dal critico allo spettatore non specializzato proprio come nelle foto ci sono piccole e grandi compagnie in ugual misura: tutti hanno lo stesso spazio. Io l’ho sempre considerato un contenitore per creare dei legami, uno strumento per mettere insieme persone

Com’è nata l’idea di farne una mostra?
L’idea è nata l’anno scorso, ad aprile, un po’ per caso: il Photofestival mi ha chiesto una personale e io in quel periodo mi stavo occupando principalmente di Breakaleg, ma, onestamente, non credevo che potessero essere interessati. E invece… Così abbiamo creato il primo allestimento che comprendeva foto di vari teatri: l’Elfo Puccini, il Teatro della Cooperativa, il Menotti, il Leonardo (MTM), il Filodrammatici.

Quest’anno invece hai preferito concentrarti solo sull’Elfo?
Sì, anche se, a dirla tutta, la mostra raccoglie anche foto di spettacoli che la stagione scorsa erano in cartellone altrove e approdano all’Elfo quest’anno. La scelta dell’Elfo, del resto, è stata quasi naturale: ho un ottimo rapporto con questo teatro perché oltre alla grande competenza artistica, le persone che ci lavorano dimostrano una sorprendente capacità nel creare rapporti, nel generare un proprio pubblico. Spesso agli spettacoli si incontrano sempre le stesse facce – e non si tratta solo di addetti ai lavori –, segno che la gente torna, si fidelizza: si crea una bella atmosfera. E poi basta vedere quanto è attivo il Teatro Elfo Puccini fan club sui social per rendersi conto dell’abilità connettiva di questo teatro: una caratteristica in perfetta sintonia con lo spirito di Breakaleg.

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Dalla ritrattitstica alla foto di scena o il tuo percorso è stato inverso?
La mia formazione fotografica è stata piuttosto anomala: nasco come architetto, poi mi sono occupata principalmente di still life (tecnica fotografica che ritrae oggetti inanimati, ndr) e mai avrei pensato di occuparmi di ritratto. Ero letteralmente terrorizzata dalle persone. Poi ho avuto la fortuna di lavorare con Douglas Kirkland (avete presente Marylin Monroe avvolta da candide lenzuola? Ecco, lui! ndr) e questo ha cambiato il mio punto di vista.

E la passione per la fotografia di scena?
In realtà non sono mai stata particolarmente appassionata di teatro, però una volta entrata in contatto con questo ambiente sono rimasta stregata dall’impegno, dalla dedizione di chi ci lavora. Già fare il fotografo non è semplice, ma per scegliere il teatro devi essere matto: serve una volontà e una passione fuori dal comune. Quanto alla fotografia di scena in senso classico, non mi è mai piaciuta: la faccio, anche volentieri, perché mi diverte poter seguire le prove, vedere come nasce ed evolve uno spettacolo, ma, a dir la verità, non mi interessa. Forse a causa della “luce teatrale”, che, in qualche modo, apparecchia già l’immagine: il suo ruolo “drammaturgico” limita le possibilità di sguardo. Fotografare la scena è una situazione ambigua: da una parte sembra quasi di fare un reportage, di registrare ciò che accade sul palco, eppure, dall’altra, sai perfettamente che si tratta di qualcosa di precostituito. A volte penso che bisognerebbe salire sul palco e fotografare dalla scena, entrare nella scena.

La stessa ambiguità però si può trovare nei tuoi ritratti…
È vero, nei miei ritratti gli attori vengono colti in un momento di passaggio: sono già vestiti, e stanno entrando nel personaggio, ma ancora non lo sono del tutto. È una situazione piuttosto incerta ma interessante: una volta Alice Redini – che insieme ad Elena Russo Arman è forse l’attrice che più mi è capitato di fotografare – mi ha detto che essere fotografata da personaggio la aiutava a comprenderne aspetti nascosti, a cui normalmente non avrebbe pensato. Essere personaggio aiuta l’attore e allo stesso tempo il fotografo: tutti e due sappiamo cosa fare, cosa cercare. E poi la maschera crea una condizione di parità che ci mette entrambi a nostro agio: io ho il filtro dell’obiettivo, l’attore quello della maschera. Paradossalmente si perde una naturalezza per acquistarne un’altra.

Eppure non dev’essere semplicissimo ritrarre qualcuno prima che salga sul palco: gli attori sono in fibrillazione o compassati? Si prestano al gioco?
La finestra temporale in cui avvengono gli scatti è piuttosto ridotta, quindi per sfruttarla al meglio mi preparo andando prima a vedere lo spettacolo per capire esattamente cosa voglio cogliere. Quanto agli stati d’animo degli attori, dipende dai casi: ce ne sono alcuni che mi chiedono di arrivare con un po’ di anticipo perché poi hanno bisogno di tempo per ritrovare la concentrazione necessaria alla scena, altri invece sono sempre pronti. Nella tournée di Servo per due mi è capitato di fotografare Pierfrancesco Favino dietro il sipario con il pubblico già in sala. In linea di massima comunque c’è molta disponibilità.

Ma è vero il cliché dell’attore vanesio? Qualcuno si lamenta mai delle foto, chiedendoti magari di rifarle?
Finora non mi è mai capitato. Anzi talvolta si creano dei bei rapporti tanto che per riuscire a fotografare alcuni spettacoli è più facile rivolgersi direttamente agli attori che passare dalla burocrazia di certi teatri. E poi, davvero, nascono delle specie di complicità: mi ricordo ancora quando Silvio Orlando – che avevo fotografato per il Il Nipote di Rameau – si ricordò della nostra comune passione per il ping pong e mi invitò al Franco Parenti dove stava facendo La Scuola: ci facemmo una partita praticamente dietro le quinte!

C’è una fotografia a cui sei particolarmente legata?
Più di una, naturalmente. Rimanendo all’Elfo direi quella che ritrae Federico Manfredi in Viva l’Italia, ma anche quella di Elena Russo Arman in La mia vita era un fucile carico. Al momento una delle mie preferite è quella che fa da locandina per quest’ultima mostra e che ritrae Ferdinando Bruni nel Vizio dell’arte.

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