Premiato col Leone d’Oro alla Biennale, il musicista più disallineato fra gli artisti del nostro tempo ha presentato in laguna un programma che aveva la fisicità dell’orchestra: giovani strumentisti che suonavano senza spartiti un menu di armonici, di suoni fissi, di note lunghe e ben tenute che il compositore aveva organizzato come una pulsante matassa di fili acustici. Un ”back to the roots”che ha spiazzato tutti
Vi siete mai divertiti a un concerto di musica contemporanea, quella che Battiato lo “buttava giù”? È successo a chi c’era, sabato 21 ottobre, alla Fenice di Venezia con le navi volanti di Brian Eno (Ships), la sera prima che la Biennale consegnasse il Leone d’oro al meno organicamente “musicista” e più liberamente disallineato fra gli artisti del nostro tempo (inteso come cinquant’anni di storia audio-video).
Ships – variazione plurale di quel che è stato consegnato al disco con The Ship -, è un vasto pezzo che avvolge il pubblico nella bolla di una materia che a occhi chiusi riconosciamo appartenere a Eno, alle sue linee di ricerca sul suono e di abbandono al suono. Le “Navi”che, tra fumi e luci, si sono insinuate nei palchi del teatro, potevano quasi uscire dall’elettronica degli esordi, dai vecchi registratori a nastro, dalle session anni Settanta con Bob Fripp, con una decisiva differenza: le onde di suono questa volta avevano la fisicità di un’orchestra, la Baltic Sea Philharmonic; giovani strumentisti di area finnica che, sotto la guida sciamanica di Kristjan Järvi, suonavano senza spartiti un menu di armonici, di suoni fissi, di note lunghe e ben tenute che il pensiero dell’uomo (Brian Eno) aveva organizzato come una pulsante matassa di fili acustici.
«Non avevo mai pensato di fare musica per o con un’orchestra – confessa Brian -: mi ha convinto Lucia Ronchetti» (che dirige la Biennale Musica da tre anni). La prima volta è stata nel giorno in cui un Leone alla Carriera gli ha incollato un titolo di “Maestro” che Eno cortesemente rifiuta («mi direi piuttosto un fungo, che nasce grazie alla natura che gli sta intorno»). Hanno preso forma, le nozze con l’orchestra, sebbene al mélange quasi classico partecipassero anche le tastiere di Peter Chilvers e le chitarre elettriche di Leo Abrahams, quanto mai “fripppiano”. E c’era anche la parola, nelle Ships di Venezia che forse navigheranno altri mari: la prosa ben scandita di Brian Eno e di Peter Serafinowicz, la vocalità evocatrice di Melanie Pappenheim.
Ma quello che nessuno si aspettava, nemmeno chi ha vissuto gli esordi di Eno come electronics-man con make-up e rossetto, era che in Ships entrassero anche il Song, la canzone, la melodia, i due anni nel più geniale gruppo glam del pop britannico, gli album firmati da Eno dopo il suo divorzio dall’altro Brian (Ferry), gli incontri con Velvet, Nico, Bowie. Imprevedibile riascoltare proprio alla Biennale Musica un Brian Eno cantante (la voce se l’è tenuta in forma) e, quasi una sfida, constatare che lo Sperimentatore del Suono ha la mano capace di scrivere un tema di successo e non ha più scrupolo a esibirla.
Dalla metà del “concerto” il fiato pop ha cominciato a soffiare dentro l’astrazione coltivata dalla Ambient Music in avanti; astrazione alla quale (sola) si credeva che il Leone d’oro si riferisse. Insomma, con Ships, Brian Eno ha celebrato un ”back to the roots” che ha sgambettato tutti, provocando l’inevitabile divorzio tra chi il pop l’ha vissuto e chi alla Biennale chiede solo di santificare un’Accademia che Lucia Ronchetti ha messo in pausa (fino al 30 ottobre questa rassegna continuerà a spargere per Venezia musiche pensate, realizzate, elaborate con ciò che l’elettronica offre, intelligenza artificiale compresa).
La mattina dopo, alla premiazione pubblica, Brian Eno – “europeo” che si vergogna della Brexit – ha detto cose che giustificherebbero un Leone d’Oro anche se non avesse fatto quel che ha fatto: riflessioni e pensieri di evidenza disarmante sulla realtà, sulla politica, sui social («mossi da algoritmi studiati per dividere la gente e garantire il profitto»), sulle diverse missioni di arte e scienza, sulla stupidità dell’ideologia tecnocratica americana che inneggia al “self made man” («come se certi geni come Elon Musk e Steve Jobs potessero o avessero potuto esistere senza una rete culturale, un gruppo, una società»).
Finale non meno sorprendente quando, per sintetizzare sé stesso in una parola, Brian Eno ha chiesto un prestito alla definizione di democrazia data da un pensatore disallineato come lui: “Il sistema più adatto a chi non è sicuro di avere ragione”.
«Un Maestro no, proprio no. – conclude Brian Eno -. Mi definirei piuttosto un Incertenario».
All’Arsenale, un incredibile “film”, Nothing Can Ever Be The Same, aveva molto da dire su che cosa sia stato Brian Eno e di che cosa la Biennale Musica 2023 stia rendendo conto con il suo tema Micro-Music. Utilizzando parte delle 500 ore di registrazioni audiovideo raccolte da Brian Eno nella sua vita, molte mai viste nemmeno da lui, due artisti dell’immagine, Gary Hustwit e Brendan Dawes, hanno pensato, confezionato, programmato una installazione video di sollecitante follia: 168 ore che un programma generativo ha “montato” mettendo liberamente insieme immagini concrete e tagli astratti in sezioni che non si ripetono mai, ma proprio mai. Nelle due ore in cui è stato mostrato, Nothing Can Be Ever The Same ha fatto capire tre cose: 1) gli imprevedibili “montaggi” svelano, nella loro follia, sempre qualcosa di nuovo su Brian Eno; 2) l’intelligenza artificiale fa un lavoro “sporco” che nessun essere umano avrebbe mai tempo di fare; 3) se “sotto” c’è un’informazione umana intelligente, l’intelligenza artificiale rimane tale, se no diventa cretina (o pericolosa).
Ultima coincidenza veneziana. Nei giorni della Biennale Musica, alla Fondazione Guggenheim si può vedere una mostra su Marcel Duchamp rivelatrice dell’intelligenza che non ha bisogno di additivi. Riguarda la Scatola in un Valigia in cui Duchamp aveva raccolto una antologia delle sue “invenzioni” da pittore, disegnatore, artigiano, provocatore. Un giorno del 1943, ricevuta la Valigia, Walter Arensberg scrisse a Duchamp: “Lei ha inventato una nuova forma di autobiografia… è diventato il burattinaio del suo passato”.
Insieme a “incertenario”, su Brian Eno calza bene anche l’idea del “burattinaio del suo passato”.
Foto: La Biennale di Venezia @Andrea Avezzù