Ronan, attrice giovanissima e talentosa, ritenta la corsa alla statuetta grazie al drammatico, struggente ruolo di Ellis, in bilico tra Irlanda e America
La 21enne Saoirse Ronan, newyorkese di nascita ma cresciuta in Irlanda, è già alla seconda nomination all’Oscar. Lasciò subito il segno nel 2007, gareggiando per la prima volta alla statuetta, grazie al ruolo della 13enne Briony Tallis nell’adattamento di Espiazione, romanzo dell’inglese Ian McEwan. Da allora ha impresso ai suoi molti ruoli adolescenziali una cifra diversa, un’aura delicata, seria, una maturità in qualche modo inquietante, nell’action thriller Hanna come nell’adattamento del best seller L’ospite, dell’americana Stephanie Meyer.
Ora, grazie alla parte nel dramma romantico Brooklyn, tratto dall’emozionante libro di Colm Tóibín, concorrerà di nuovo all’Oscar, insieme allo sceneggiatore Nick Hornby e alle produttrici Amanda Posey e Finola Dwyer. E per la prima volta lo farà in un ruolo di giovane donna, nella sua prima parte “adulta”.
«Alcuni pensano che sullo schermo sembro più giovane perfino della mia età. E che potrei ancora “funzionare”(odio questa parola) come adolescente. Io, invece, dopo Lost River di Ryan Gosling che ho girato nel 2014, ho deciso di non accettare più ruoli da ragazzina». Il punto fermo, per lei, ora è crescere, andare oltre, sfidando quel suo volto quasi bambino.
In Brooklyn, film da romantici professionisti, è un’emigrante divisa tra due paesi e due uomini. È stato scritto e diretto da romantici professionisti, il romanziere Colm Tóibín e il regista John Crowley, irlandesi entrambi. Tóibín è uno degli autori contemporanei di maggiore densità in lingua inglese. I suoi romanzi sono specchi di dinamiche sentimentali profonde, estreme, storie d’amore e morte, abbandoni e rinascite. E la messa in scena di Crowley dà a Brooklyn un tono più toccante che leggero. Meno dramma e più fragilità.
Ottima soluzione per una storia “epica”, un melodramma in cui Ronan è la giovane Eilis, che approda da un minuscolo paese irlandese nella selvaggia New York di inizio anni 50. Dopo il terrore e le difficoltà, lei cresce newyorkese e s’innamora di un giovane italo-americano. Costretta però a tornare in patria per un lutto familiare, conoscerà, nel suo antico mondo, un altro uomo. E dato che anche Ronan ha la doppia cittadinanza, americana e irlandese, questo ruolo le è “cucito addosso”.
«Un personaggio sempre in viaggio, e diviso tra Irlanda e America, ha certamente un significato molto profondo per me. Altra coincidenza biografica, la protagonista ha la mia stessa età. In qualche modo, forse ero come predestinata per questo ruolo“.
Nelle storie di emigrati il profondo desiderio di tornare a casa, assai malinconico, può sfiorare il rischio del cliché. Non lo temeva? «Il pericolo c’è sempre, in storie costruite così; anche se, nella letteratura come nella vita, spesso i cliché vengono addirittura superati. Quella raccontata in Brooklyn è una storia autenticamente legata a entrambi i paesi. Pensavo fosse solo irlandese fino alla presentazione al Sundance Film Festival, ma in quell’occasione mi sono resa conto di quanto pubblico e stampa americani si fossero identificati con la storia di Ellis».
«La prospettiva del racconto di Tóibín è molto femminile, certo. È quella della scelta fra due mondi, due uomini, due vite». Un tema non certo estraneo alla sua generazione fatta di ventenni globali che girano tra i continenti. «Oggi un mio coetaneo, una mia coetanea occidentale hanno già fatto l’esperienza della partenza, di una nuova vita. Certo, la mia generazione ha molte più chance di ritrovarsi, fa le sue scelte in un mondo globale, veloce, senza confini, almeno per noi occidentali. Ma nel film il dramma è assoluto. Perché Eilis ha attraversato la tristezza, l’abbandono (che non è partire con la carta di credito di papà in tasca), il desiderio, la paura, la gioia, prima di arrivare al bivio di una vita».
Insomma Brooklyn è un film sulle donne e con molte donne, una rara pellicola internazionale con più ruoli femminili che maschili. «Molto rara, purtroppo. È finalmente un film dove le donne stanno sedute a un tavolo, e parlano tra loro non solo di sesso o di uomini. Così poco spettacolare e bello! È raro vedere al cinema tante donne, anche di età diversissime, che si confidano, condividono situazioni. Tutto ciò in Brooklyn è riuscito: e ne sono orgogliosa».