27 gennaio: Giorno della memoria delle vittime di nazismo e fascismo. Affinché la coscienza storica ci abiti, serve che il dialogo con il nostro passato non sia l’atto di un istante. Non è tempo per essere comodi, quello in cui viviamo.
Per questo, tra tanti titoli, la scelta va su due proposte di lettura accomunate, in opposte direzioni, da uno sguardo scentrato, di traiettoria non convenzionale. E, per ciò stesso, vivo. Parliamo di “Primo Levi – Miti d’oggi” di Bruno Osimo, pubblicato da Francesco Brioschi editore; e del nuovissimo “1945 e altre storie” di Gábor T. Szantó (Edizioni Anfora).
La Memoria è una divinità difficile.
Elusiva e necessaria, ci dice il mondo antico: non per niente le rappresentazioni che ne abbiamo sono rare, e in fondo generiche. Dovremmo ricordarci di questa labilità originaria, perché è indicativa di un rapporto complesso, caratterizzato da un mistero di cura legato ai riti di incubazione, alla trasformazione e, in ultima analisi, alla sopravvivenza.
D’altro canto, che il rapporto che la Memoria intrattiene con la parola sia qualcosa di eccezionale, e di generativo, lo rivela la responsabilità primigenia che le compete. Diodoro Siculo (che di faccende divine anche sottili e inusitate se ne intendeva) assicura che fu lei a regalare agli uomini la capacità di dare i nomi alle cose visibili e non visibili; munendo il genere umano, dunque, della possibilità di comunicare – al presente, con il passato e per il futuro.
Forse mai come in questi anni il nostro rapporto con la responsabilità del ricordo ha attraversato un momento di crisi tanto profondo: una società ferita è una società che più facilmente cede alla ferocia, alla dimenticanza selettiva, all’impulso. Allontana il passato in quanto passato, per affermare, minimizzare, sdoganare e giustificare le aberrazioni del presente.
E anche quando rappresentiamo ciò che è stato esiste il rischio sempre latente di non esercitare davvero la Memoria: a volte, pur nelle migliori intenzioni, finiamo per guardare a ciò che è accaduto con il distacco che tributiamo, appunto, a una rappresentazione – qualcosa che ci lambisce, ma dalla quale, da ultimo, ci chiamiamo fuori.
In fondo, benché gli Olimpici abbiano da un po’ di tempo passato la mano, la lezione che ci hanno affidato è ancora questa: nominiamo le cose per metterle in comune con gli altri, per permettere loro di attraversare il tempo, per curarci e per guarirne.
Ma perché ciò accada, nella labile relazione con una divinità riottosa e fondativa, abbiamo bisogno di autenticità: ovvero, di un rapporto vivo. Non iconico, non rituale, non stanco né di prammatica.
E questo è bene tenerlo a mente: affinché la coscienza storica ci abiti, serve che il dialogo con il nostro passato non sia l’atto di un istante.
Non è tempo per essere comodi, quello in cui viviamo.
Per questo, tra tanti titoli, la scelta va su due proposte di lettura accomunate, in opposte direzioni, da uno sguardo scentrato, di traiettoria non convenzionale. E, per ciò stesso, vivo.
Per il 27 gennaio 2022, Giorno della Memoria delle vittime di nazismo e fascismo.
Bruno Osimo, Primo Levi – Miti d’oggi (Francesco Brioschi editore)
“Spesso, quasi a livello inconscio, i testi di Primo vengono archiviati – talvolta addirittura schivati – dal lettore di oggi, in quanto presunti portatori di una carica di tristezza e di infelicità. Per qualche motivo li consideriamo scomodi, fastidiosi per la nostra coscienza diurna.
“Non pensiamo a quelle cose tristi!”
La mia tesi è che invece i testi di Primo siano per noi portatori di felicità.
Parlo di “felicità” in senso proprio. La felicità non dipende dalle cose al di fuori di noi, ma dal nostro modo di viverle. E nessuno meglio di Primo è in grado di mostrarcelo”
In Primo Levi – Miti d’oggi, pubblicato da Francesco Brioschi, Bruno Osimo compie un ribaltamento di prospettiva per invitare a un esercizio desueto: non partire dal nostro presente per raccontare le parole di Primo Levi, ma usare lo sguardo di Primo Levi per guardare al nostro presente.
Ne esce un gioco di specchi, acutissimo, in cento cortocircuiti: una parola (del nostro inglese quotidiano), una citazione (da Il sistema periodico,da Se questo è un uomo, da La tregua, da I sommersi e i salvati, da Ad ora incerta, da La chiave a stella, da L’altrui mestiere, da conversazioni e interviste, coprendo l’intero arco della produzione di Levi), una riflessione.
Il ritmo è veloce e fulminante, l’effetto è quello di un acciarino acceso all’improvviso a illuminare tic, paradossi, assurdità, compromissioni del nostro presente.
Ne esce, a stralci, l’immagine di una umanità affetta da bulimia di informazioni potenziali (la cui portata resta in potenza per incapacità), una civiltà del comfort che abbandona la propria cultura per noia e per sistematica elusione della fatica, un mondo di liberti animati da forme di competitività violenta, spesso analfabeti affettivi, confusi sulla differenza sostanziale tra bisogno di conoscenza e obbligo di istruirsi.
L’opera di Primo non è importante solo per la Shoah, come testimonianza, ma anche, o forse soprattutto, per la nostra vita di tutti i giorni, la vita di noi cosiddetti “cittadini liberi”
L’intuizione di Bruno Osimo, (che è un teorico della traduzione e anche in questo lavoro, in fondo, esercita la capacità di far attraversare i concetti tra linguaggi ed epoche), punta al cuore di una fondamentale questione del nostro tempo: il nostro rapporto con la realtà.
Possono le parole di uno scrittore scaturite da una esperienza estrema di vita reale farci riflettere sul dato di finzione di cui rivestiamo la nostra quotidianità, rivelando al contempo il senso (o il non-senso) di molte nostre scelte?
Osimo (che maneggia i testi di Levi con un approccio semiologico) non ha dubbi:
“La sua grandezza sta nell’aver ricucito tutto quello che ha visto e vissuto, ravvisando tracce di Lager nel suo quotidiano e tracce del suo quotidiano nel Lager”
Il dialogo che ne scaturisce è vivo: con Levi – sembra riaffermare ad ogni lemma Osimo – si parla al presente. Del resto, lui lo chiama Primo. Per nome: così come si chiamano gli amici. Ed è, questo della sua vicinanza, un effetto collaterale di questa lettura felicemente inevitabile.
Gábor T. Szántó, 1945 e altre storie (Edizioni Anfora)
Otto racconti per guardare dritto in faccia agli impliciti, nella terra del non detto, nei margini del pensabile. Otto racconti di tensione e silenzio: una tagliente elegia per la terra di nessuno.
Che ne è della pacificazione lì dove abita la cattiva coscienza collettiva?
“La maggior parte dei presenti tace. Non è così semplice, pensano con una certa agitazione ai mobili, ai tappeti, alle lenzuola e ai vestiti che hanno comprato a prezzo ribassato all’asta tenuta nella piazza l’estate scorsa. Li pervade la sensazione che proverebbero se i loro proprietari tornassero al villaggio, trovandosi di fronte ai loro averi. Si vergognano, ma li fa anche arrabbiare questa sensazione alla quale si oppongono vivamente”.
Tradotto da Richárd Janczer e Mónika Szilágyi per Edizioni Anfora, 1945 e altre storie è il primo libro di Gábor T. Szantó pubblicato in italiano.
Scrittore e sceneggiatore, poeta e saggista, Szantó ha una penna asciutta e l’acuta capacità di puntare la sua attenzione verso i risvolti meno frequentati del trauma della Storia, lì dove non c’è (ancora) elaborazione – perché di rado la narrazione vi si è spinta.
Che 1945 – Il ritorno, racconto di apertura di questa raccolta, sia diventato un film diretto dal regista ungherese Ferenc Törok premiato tra gli altri alla Berlinale del 2017 e distribuito in quaranta paesi, è testimonianza pratica degli effetti di una scrittura che sa esercitare la tensione con un taglio inedito.
In coppia si presentano spesso i protagonisti di queste storie: sopravvissuti che tornano nel proprio villaggio (ma non trovano né stendardi né pietà ad accoglierli), sopravvissuti che vengono prelevati dalla propria casa (e portati ad occupare quella di altri), sopravvissuti che non hanno intenzione di rimanere vittime per tutta la vita (ma la Storia gli ha masticato dai fianchi ogni possibilità di futuro).
Lì dove i legami sono quelli famigliari, Szantó fa crepitare solitudini selvagge parche di salvezza. Ci sono scelte da fare, sempre: anche quando minano in profondità.
E la mancata rielaborazione del dopoguerra resta come rumore di fondo, stendendo sulla società del tempo a venire le proprie ombre.
“Comprensivo? Krummer scoppiò a ridere nervosamente. Non gradisco che mi ricattino.
Neanche noi che ci sterminino”.
La realtà è un labirinto disseminato di eventi non risolti: per questo ci interroga ancora.
Dal destino delle proprietà dei deportati alle sepolture non avvenute, dall’impunità al risarcimento, dagli esili privati alle emarginazioni silenziose: Gábor T. Szantó non pacifica ma innesca, a lento rilascio.