Né deportati, né fannulloni: piccolo viaggio tra ragioni e torti dei docenti trasferiti. Ma una gradualità maggiore avrebbe giovato
Settembre, andiamo. È tempo di migrare…
Innegabili segni di sommovimento registra questo inizio d’anno scolastico: debutta la nuova figura del dirigente scolastico, del preside che qualcuno definisce ‘sceriffo’, c’è l’apertura di credito all’ insegnamento delle discipline in inglese, ma soprattutto l’assunzione in ruolo di 100 mila docenti, anche se finora quelli che effettivamente sono stati assunti sono 38mila.
L’aspetto più dirompente di quella che a tutti gli effetti è da considerare la conquista del posto fisso per molti precari è il repentino cambio di sede, spesso in una provincia lontana centinaia di chilometri, prevalentemente nel nord: e visto che un insegnante su due ha più di 40 anni e che più dell’87 % è donna, è facile comprendere le ripercussioni sulla vita e sulle famiglie. Eppure la notizia che molti insegnanti, circa il 15%, hanno rinunciato all’incarico mi ha negativamente colpita e ho seguito senza perdere una sillaba, specie in rete, ciò che stava succedendo.
A parte il solito scontro Nord Sud contrassegnato dai luoghi comuni triti e ritriti, oscillanti tra fannullaggine ed efficienza, a parte qualche raro caso di reale impossibilità a trasferirsi, si fa fatica a comprendere fino in fondo il perché di un rifiuto così importante. Ed anche l’uso volutamente esagerato, politico se vogliamo, del termine ‘deportazione’ degno di più nobili e tragici rimandi. In realtà la diatriba ci ha allontanato e ci allontana dall’analisi di qualche errore e soprattutto dalla fretta di chiudere al più presto la partita della scuola come ha sostenuto Mariapia Veladiano su la Repubblica.
Personalmente non conosco colleghi rinuncianti né riesco indirettamente a contattarne qualcuno per approfondirne le ragioni. Le mie due colleghe, ambedue supplenti cinquantatreenni in un istituto superiore di Sesto San Giovanni, mi sembrano piuttosto soddisfatte, così pure l’altra, quarantottenne, fresca di nomina che esibisce come un attestato di prestigio professionale e sicurezza interiore. Dimenticavo, sono pugliesi tutte e tre.
Certo, il viaggio di Barbara che lascia a Palermo la sua bambina di un mese per andare ad Alessandria a prendersi la sua cattedra di italiano non deve essere felice; poi sicuramente riuscirà a conciliare affetti e realizzazione di sé, ma per ora è dura; così come è ardua la scelta di Benedicta che compie il viaggio inverso da Milano, dove lascia due figli piccoli, per andare a Palermo.
Sonia è calabrese, precaria da 15 anni. Piange quando arriva la nomina a fine agosto, piange per la gioia di un lavoro certo e per il dispiacere di lasciare il marito con due figli adolescenti. La sede è Modena, arriva e scalza una collega del posto, si addolora, poi decide di parlarle. Lo fanno e si chiariscono, non c’è colpa. In una settimana trova casa, si sente accolta, le piace la scuola che le è stata assegnata, organizza i suoi fine settimana: tre cambi di treno all’andata di venerdì, pullman notturno per il ritorno del lunedì mattina alle sei.
Non sempre però le cose vanno per il loro verso nonostante la volontà di superare gli ostacoli. Per Sonia, 55 anni e tre figli, il problema era quello di trasferirsi, in realtà le hanno appena comunicato che non ci sono più posti disponibili e che dovrà attendere senza alcuna certezza la fase C e i tempi previsti slittano a novembre, dopodiché, in caso di assegnazione avrà dieci giorni di tempo per decidere.
Concludo questa rassegna con la vicissitudine professionale e umana di Filippo. Laureato in storia e filosofia e con la passione per l’insegnamento. Ci prova, comincia con le supplenze, troppo sporadiche per vivere in autonomia. Si ricicla e passa al sostegno, per anni. Non si arrende e partecipa al concorso per le sue materie, lo vince e piange di gioia, ma la cattedra non c’è, resta sul sostegno. Lo chiamano per la nomina sul sostegno, prima di accettare fa presente che essendo vincitore di concorso in futuro potrebbe aspirare alla sua cattedra.
No, prendere o lasciare, se vuole aspettare o semplicemente fare domanda per altro insegnamento, passerà negli albi regionali, ovvero nella grande farragine dove si ricomincia praticamente da zero. Addio filosofia.
Capisco il messaggio non detto e non scritto “Hai un lavoro a tempo indeterminato, che cosa vuoi di più?”, però mi sentirei di togliere quel ‘buona’ davanti a scuola, e non solo per Filippo ma per quegli insegnanti (e non solo) che hanno sviluppato talenti e competenze che nelle aule costituiscono il sale e che invece dovranno essere realisticamente accantonati.
Immagine di copertina di Daveynin