Nel drammatico “Cake” un’ottima Jennifer Aniston è Claire, una donna distrutta, nel morale e nel fisico, dallo spaventoso incidente in cui ha perso un figlio
Che Jennifer Aniston sia un’attrice tra le più sottovalutate dalla critica (americana e non), ma per sua fortuna festeggiata dal pubblico, fin dai tempi del trionfo tv in Friends, è una realtà sempre più evidente. Perché nel mare magno dei film che ha interpretato, una trentina in meno di vent’anni di carriera – e continuando a recitare anche in tv – forse non se ne salvano tanti, ma di sicuro lei ha dimostrato un gran talento di commediante. Perché il genere brillante certo prevale (un esempio su tutti lo spassoso recente We’re the Millers), e presto la si rivedrà su toni da commedia, in senso americano, in Tutto può accadere a Broadway, l’ultimo capolavoro di Peter Bogdanovich che la distribuzione italiana si ostina a non portare nelle sale.
Ma se volete avere invece un esempio, che vale il biglietto, delle sue doti drammatiche, già in passato evidenziate in Friends With Money o in The Good Girl (vincitore di vari Independent Spirit Award, che era in bilico tra registro serio e buffo), un’ottima occasione è ora Cake di Daniel Barnz, tratto da un raconto di Patrick Tobin, in cui a Jennifer tocca una parte che meno anistoniana non potrebbe essere.
Claire, bella signora di una Los Angeles non scontata, esce sfigurata da uno spaventoso incidente stradale in cui perde il figlio amatissimo. E con lui ogni spinta verso la vita e il genere umano. Afflitta da dolori atroci, segnata da cicatrici su tutto il corpo, quasi immobilizzata e impedita nella guida dell’auto (e provate voi a campare decentemente a L. A. in queste condizioni, anche solo l’ultima) rinuncia a qualsiasi dialogo con gli altri tanto da venire espulsa per la degenerazione del suo carattere anche dal gruppo di sostegno sul dolore che frequenta, unica forma di collegamento sociale che le rimane, a parte l’atteffuosa, pazientissima, intelligente governante Silvana, (cui dà volto la bravissima attrice messicana Adriana Barraza, nominata all’Oscar 2006 grazie a Babel).
Sarà però un altro tragico evento, il suicidio di una giovane amica che ha trovato nel gruppo (la lanciatissima Anna Kendrick) a smuovere dentro di lei qualcoasa, convincendola a prendersi cura dello sventurato vedovo (Sam Worthington) e del figlioletto che ora deve gestire.
Una della star più glam e simpatiche di Hollywood che accetta con gioia, da vera attrice, di diventare brutta (si fa per dire…) e insopportabile, era una grande chance per il film (altrimenti poco appetibile a produttori e pubblico) ma un rischio per lei, che a 46 anni sta entrando in quella pericolosa fascia d’età in cui le scritture e i ruoli tendono già di per sé a rarefarsi, per discriminazione anagrafica spesso immotivata ma diffusa nell’industria dell’immagine. La sua prova di coraggio e curiosità professionale è stata qui coronata dall’incontro con un regista che certamente si è messo a sua disposizione, senza però cancellare le asprezze, anche visive, di un copione che certo non fa concesioni a tranquillanti stereotipi buoni per il box-office.