Lucia Calamaro porta a Milano il suo nuovo spettacolo: una storia di morte, o meglio di morti. E della loro assenza nella vita di noi egoriferiti. E ancora vivi. Ma non è solo questo…
Per farsi un po’ belli nei circoli che contano, del teatro di Lucia Calamaro si dice che è “attuale”. Elemento incontestabile: Calamaro, nei suoi spettacoli, racconta la contemporaneità. Ma del resto lo fanno tutti, o almeno ci provano.
Cosa ci sarà di così speciale in lei? I suoi personaggi, in fondo, sono quelli che popolano diverse altre drammaturgie: precari, genitrici, malati terminali. Ma c’è qualcosa di più.
La risposta, forse, è in una sola parola: disperazione. C’è un sentimento desolante che, nell’opera di Calamaro, è latente. È come se gli strascichi di quel Tumore che ha dato titolo a uno dei suoi lavori più fortunati si fossero combinati tra loro, generando uno stato di costante apnea nella quale Calamaro immerge i suoi pensieri. Le sue filosofie.
È una che riflette, senza dimenticare il quotidiano. È per questo che piace: ti immedesimi in quello che racconta, e le sue sperimentazioni riesci ad apprezzarle. È una che fa teoria dello spettacolo, raccontano una storia in classici atti eppure ficcandoci dentro scalpitanti echi di Freud, Beckett, Kafka.
«Mi campa mio padre», è il mantra (in)desiderato di una delle protagoniste di Diario del Tempo, a oggi forse la sua opera più coraggiosa, che Christian Raimo ha definito «di una bellezza esorbitante» : quella frase risucchia, per l’appunto, una soffocante disperazione che è fisiologica, oppressiva, malcelata.
Oggi, a Milano, la brava Calamaro – che si è formata tra il Sudamerica e la Parigi di Jacques Lecoq, ricoperta di UBU grazie al megasuccesso L’origine del mondo – torna con La vita ferma: sguardi sul dolore del ricordo, da lei scritto e diretto, interpretato da Riccardo Goretti, Alice Redini e Simona Senzacqua.
In scena al Franco Parenti – in via Pierlombardo Calamaro è di casa -, lo spettacolo scaraventa sulla scena tre umanità, le ennesime tre umanità. Leitmotiv: la morte. Anzi, no: i morti.
Non la morte dunque, e non il problema del morire e di chi muore, che sappiamo tutti risolversi sotto la misteriosa campana del nulla, che strangola sul nascere ogni comprensione.
Ma i morti, il loro modo di esistenza in noi e fuori di noi, la loro frammentata frequentazione interiore e soprattutto il rammendo laborioso del loro ricordo sempre così poco all’altezza della persona morta, così poco fedele a lei e così profondamente reinventato da chi invece vive
grida Lucia Calamaro nelle note di regia. I tre atti di La vita ferma raccontano questo: spettri di morti, spettri di vivi che pensano ai morti. Ci sono l’incidente, la perdita, il vuoto: ma soprattutto è il pensiero a rivelarsi letale. La vita ferma è un omaggio parossistico, dove si ride – a denti a volte stretti – del decesso, della tragedia, del dolore. Una riabilitazione che, filtrata dalla regista, assume toni indecifrabili, imprendibili, dolorosissimi perché reinventati in forma credibile e pulsante.
L’assenza improvvisa, il vuoto, pregiudicano esistenze che saranno egoisticamente segnate dalla scomparsa: la morte, per l’appunto, segna il tempo. Scandisce nuovi ritmi. Modifica e rimpasta l’animo. È vita ferma, immobile ed egoriferita a un sentimento che è solo nostro.
La Calamaro, ancora una volta, è un’autrice dei miracoli: perché non fa nulla di speciale. Pensa.
(foto di proprietà di Sardegna teatro)