Grazie a Dio, è di nuovo calcio (inglese)

In Cinema, Letteratura, Weekend

Non leggete se non vi piace: football, pedate, storie, persone, speranze di vittoria e poi di rivincita. E libri e film, of course

«Papà, è finita, ha vinto il Brasile. Baggio ha sbagliato l’ultimo rigore».

«Ah sì? Meglio, che almeno stasera si dorme, se no sai che casino. Anzi, vai a letto pure tu, che così la mamma tira i piedi sul divano e si guarda il TG».

«Ma va, lascialo guardare, tanto stasera parleranno solo di calcio. Che due palle, menomale che è finito ‘sto mondiale».

Da quando ne ho memoria parlare di calcio nella mia famiglia ha sempre dato soddisfazione quanto raccontare barzellette zozze in un convento. Due lingue diverse, due pianeti lontani anni luce, che solo raramente, per una qualche imprevedibile congiunzione astrale, finivano per trovarsi in un breve, fugace contatto: gli eroi e le loro storie.

Non capita spesso (non abbastanza), ma succede che la figurina, la televisione, la pubblicità, nascondano un uomo con una storia che valga la pena di raccontare. Una storia più forte dei dirigenti in gessato da gangster, degli stipendi esagerati, degli scandali di corruzione, delle medicine proibite, del tifo violento e di tutto lo schifo di cui un rettangolo verde può sporcarsi. La storia di Garrincha, nato con una gamba più corta dell’altra, e proprio per quello quando partiva con le sue finte non lo fermava nessuno, nemmeno i medici che lo avevano dichiarato inadatto a praticare qualunque sport. La storia di Socrates, nome pesante e piedi leggeri, una laurea in medicina e una vita a fianco degli sconfitti del mondo, tanto da meritare, la domenica della sua morte, una squadra e uno stadio intero col pugno alzato, mentre il suo Corinthians diventava campione del Brasile. La storia di Messi la pulce, il primo contratto con il Barcellona firmato dalla madre su di un tovagliolino di carta, dice la leggenda, e poi via a nascondere la palla ai difensori di due metri dall’alto del suo metro e mezzo o poco più. La storia di Roberto Baggio (il nostro preferito), caduto e risorto e poi caduto e risorto ancora, genio dal tocco sottile e con le ginocchia di cristallo, sempre con lo stesso codino a marchio di fabbrica, a dimostrare che sì, certi eroi sono eterni per davvero e non te li scordi più.

Forse è proprio questo il bello del calcio, il segreto del suo successo e della sua universalità: la costante promessa e la voglia di una rivincita, di una seconda chance.

Il bello del calcio è che, come al cinema, c’è sempre posto per la speranza di un lieto fine.

Nel cuore degli appassionati di storie e di Storia del pallone che rotola, è soprattutto il campionato inglese, la Premier League, appena cominciata, a occupare da sempre un posto tutto suo. Perché è da lì che tutto è cominciato. “Football’s Coming Home” cantavano i tifosissimi britannici, tra maglie bianche, croci rosse e birre giallo oro, durante i campionati europei del 1996 in terra d’Albione, e poco importa che la loro nazionale fosse destinata a essere sbattuta fuori di lì a breve, ai rigori, sempre ai rigori (oh, the tragedy!), costringendo i padroni di casa a sbirciare la finale dal cortile sul retro. Così come poco importa che il problema degli hooligans sia stato debellato principalmente aumentando vertiginosamente il prezzo dei biglietti d’ingresso allo stadio, trasformando la partita in uno spettacolo per pubblico dall’educazione a due o tre zeri: il calcio inglese è e resterà sempre, specialmente sul grande schermo, simbolo nostalgico di dannazione o rivalsa (o le due cose insieme) delle macerie di working class post-tatcheriana.

Uscirne indenni è impossibile: il tifo è cosa di quartiere, un coro unico dal pub alla curva. È sacro e profano, festa da santificare (il Boxing Day, nel giorno di Santo Stefano, si gioca su tutti i campi del Regno Unito) e lotta di classe: nel 1997 Robbie Fowler, attaccante del Liverpool, fu multato dalla UEFA per aver esibito nel corso di un match una t-shirt a sostegno degli operai portuali della sua città, licenziati in massa a seguito di uno sciopero. Poco prima, a inizio gara, tutto lo stadio aveva intonato il tradizionale You’ll Never Walk Alone, Non camminerai mai solo, inno della squadra di casa che al confronto l’Haka neozelandese lo si sente appena.

Non stupisce allora che, alla faccia della pioggia di sponsorizzazioni e petroldollari di oligarchi e sceicchi caduta a irrorare i campi inglesi nell’ultimo decennio, il football abbia richiamato a gran voce l’attenzione di registi più o meno impegnati, attratti ancora oggi da un immaginario fatto di cieli scuri, campi fangosi e battaglie, tante battaglie, individuali e di squadra. In prima fila (e non avrebbe potuto essere altrimenti), Ken Loach e il suo Il Mio Amico Eric, bizzarro Provaci Ancora Sam tra i quartieri operai di Manchester, dove un postino depresso troverà la forza di riprendere il controllo della propria vita grazie alle apparizioni di un immaginario personal trainer d’eccezione, il suo idolo Eric Cantona, indimenticato campione del Manchester United, bravissimo coprotagonista del film nella parte di se stesso. Ma Cantona non è il solo calciatore ad aver cambiato casacca a fine carriera per passare dagli schermi del bar alle sale di proiezione: un altro “cattivo” del pallone, il controverso Vinnie Jones, dopo una carriera a romper gambe con la maglia del Wimbledon, viene scelto da Guy Ritchie per vestire i panni di Big Chris, sgangherato killer a pagamento con figlio al seguito, in Lock & Stock – Pazzi Scatenati, e da lì non si fermerà più, tra serie tv e blockbuster hollywodiani (è tra gli antagonisti di X-Men Conflitto Finale).

Nemmeno Hollywood resta infatti insensibile al fascino della Premier League: sebbene diretti dal regista inglese Danny Cannon e dallo spagnolo Jaume Collet-Serra, i due episodi della serie Goal (Goal – il Sogno Impossibile e Goal II – Vivere un Sogno), co-prodotti tra Stati Uniti, Messico e Regno Unito, sono un curioso mix di puro american dream, momenti alla Holly e Benji e ingenuità yankee in buona fede, con una morale ben riconoscibile (non fare il Balotelli), love story interculturali, colonna sonora fracassona, pathos e gol partita all’ultimo secondo. Roba che quando la nomini al tifoso medio del Newcastle (è lì che esordisce, nel film, il protagonista appena atterrato dagli Stati Uniti) quello alza gli occhi, scuote la testa e sorride rassegnato. Il football a stelle e strisce, si sa, è tutta un’altra cosa. They’ll never learn.

Non si rassegni invece l’amante dell’iconografia pallonara più rude, quella che sa di tackle nel fango, nuvole grigie e botte da orbi: la filmografia britannica sembra essersi fermata al ricordo nostalgico del bel calcio che fu, quando anche gli eccessi delle celebrità con gli scarpini erano folklore e cultura pop. Si comincia con Best di Mary McGucklan, biopic sulla vita dentro e (soprattutto) fuori dal campo del “quinto beatle” George Best, primo vero divo da copertina nella storia della Premier League, con i suoi dribbling ubriacanti tra difensori e discoteche. Del rapporto a doppio filo tra talento e alcool tratta anche, a dispetto del pessimo titolo italiano da commedia anni ’80, Sabato nel Pallone, con Pete Postlethwaite (una garanzia) e un giovanissimo Sean Bean nei panni di una promessa dello Sheffield Utd, alle prese con il canonico viaggio interiore di discesa agli inferi, redenzione e ritorno.

Ma in cima alla classifica non possono mancare due titoli, tratti entrambi da romanzi omonimi altrettanto validi. Se oggi Mourinho spadroneggia sulle prime pagine del Regno Unito, lo deve anche alla lezione di un altro guru-showman del rettangolo verde, quel Brian Clough magistralmente interpretato da Michael Sheen ne Il Maledetto United, cronaca un po’ ricamata ma assolutamente verosimile del disastroso rapporto tra l’invincibile Leeds Utd. degli anni ’70 e quello che sarebbe diventato uno degli allenatori più innovativi e celebrati dei decenni a seguire. Dall’altra parte della barricata, invece, la bibbia del tecnico da curva o poltrona è senza dubbio alcuno Febbre a 90, scritto, al pari del romanzo, da Nick Hornby, autore inglese dall’innegabile talento e dalla passione sfrenata per il “boring, boring Arsenal”, squadra londinese simbolo di ambizioni disattese per il tifoso incallito (una sorta di Inter pre-triplete), ma protagonista, a fine anni ’80, di un’incredibile conquista del titolo nazionale all’ultimo secondo proprio sul campo del Liverpool, sua diretta concorrente nella corsa al trofeo. Se glie lo chiedete, Hornby vi dirà che in fondo lui ci aveva sempre creduto, anzi, lo sapeva che sarebbe successo, che quella palla sarebbe capitombolata piano in fondo alla rete.

Perché nel calcio c’è sempre posto per la speranza di un lieto fine, e pure un po’ per la nostalgia. Ma non ditelo a Sepp Blatter: nei giorni in cui l’ormai dimissionario presidente FIFA veniva travolto da decenni di scandali e corruzione, nelle sale statunitensi usciva United Passions, film sulla storia della massima associazione calcistica mondiale, incassando al suo debutto la bellezza di 918 dollari.

Immagine di copertina di Bjørn Giesenbauer

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