La vita è sogno per Rosaura

In Teatro

Il capolavoro di Pasolini, ispirato a Calderón de la Barca, rivive grazie alla regia di Francesco Saponaro. Non tutta l’incisività dell’originale arriva allo spettatore, ma il risultato convince

In effetti è proprio così: quando ci svegliamo e ci sembra di essere stati messi – forse per dispetto – in un letto diverso rispetto al nostro e in mezzo agli ammennicoli di una vita estranea, dobbiamo reagire compostamente; dobbiamo fidarci di quello che ci viene raccontato dagli oggetti e dalle persone che ci circondano, fingendo con tutta la naturalezza possibile di riconoscere la familiarità che quelle persone e che quegli oggetti dicono di avere con noi. Se insistiamo invece a non ammettere di essere nel posto giusto e nella vita giusta, possiamo urlare per una settimana ma nessuno verrà a salvarci.

Questo è l’avvertimento ragionevole e severo che Rosaura, la protagonista “multipla” del Calderón di Pasolini, riceve a più riprese dalla sorella. Ad ogni risveglio (che avviene sempre nel 1967, nella Spagna del vecchio Franco) Rosaura si sconvolge dell’identità che nottetempo qualcuno le ha indebitamente appiccicato: in prima battuta, è l’irreprensibile e virginale rampolla di un’antichissima famiglia aristocratica madrilena (tremendamente inzuppata di storia, tanto che può trovare pezzi della propria identità raccontati nel quadro Las Meninas di Velázquez, un’opera che ossessionava Pasolini); poi, aprendo gli occhi per una seconda volta, è una consunta prostituta in un decrepito bordello di Barcellona; infine, come terza variante, è una fragile moglie borghese. In tutti e tre i casi, Rosaura viene richiamata alla “realtà” dalla sorella, la vestale della continuità della vita che le mostra, di volta in volta, quei pezzi di quotidianità (un anello patrizio nel caso della Rosaura aristocratica o un pitale di ceramica screpolata nel caso della Rosaura prostituta) che le danno la prova di essere lì dove è sempre stata… e dove dovrà sempre restare, per scontare la condanna a un’esistenza preordinata.

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Svegliarsi e accettare di essere la Rosaura che – a detta di tutti – si è sempre stati, non è una cosa positiva: riconoscere le proprie radici vuol dire lasciarsene imprigionare e farsene trascinare sotto terra, assistendo in modo più o meno confortevole alla propria biodegradabilità e preparandosi a diventare l’ennesimo tentacolo delle radici stesse. La Rosaura aristocratica e quella borghese sono una cosa sola con la propria famiglia (e quindi con la propria classe): le appartengono in tutti i sensi, sono tenute a condividerne gli odi, le restrizioni nella solidarietà e le limitazioni nell’amore. La Rosaura prostituta, che è un possesso della collettività, ha il vantaggio, rispetto alle sue omonime, di essere un’esclusa, eppure è la prima ad ammettere di avere paura di essere diversa. Alle varie Rosaura – incarnazioni della stessa impossibilità di essere differenti e di fare la differenza – non resta che un magro momento di ribellione: proprio quello in cui, al risveglio (dopo aver sognato sconquassanti flirt con la Rivoluzione e i suoi figli), non riconoscono di essere se stesse. Il Calderón di Pasolini – ispirato a La vida es sueño di Calderón de la Barca – è un’opera complessa, ridondante e aggressiva, velenosissima – come sempre – nei confronti della borghesia (una belva mitologica che lo spettatore post-post-moderno non è mai certo di conoscere al cento per cento) ma anche derisoria nei confronti dei figli di papà che si appropriano superficialmente della Rivoluzione.

L’aspetto fiabesco del racconto e l’eterna ripartenza del sogno di Rosaura sono le componenti più vivide e gratificanti per lo spettatore, e sono anche quelle padroneggiate in modo più saldo dalla regia di Francesco Saponaro nella produzione dello spettacolo firmata da Teatri Uniti. Il corpo di Rosaura (Maria Laila Fernandez) è – assieme alla scenografia smontabile – l’elemento che tiene insieme il tutto: si anima nel terrore del risveglio e si perde nelle profondità del sonno; viene spostato di qua e di là come le malconce marionette – che a loro volta si professano «un sogno dentro un sogno» – di Che cosa sono le nuvole?, l’episodio pasoliniano di Capriccio all’italiana (1967), stracolmo di riferimenti alla pittura di Velázquez come lo stesso Calderón. Non tutti i concetti, tutti i riferimenti e tutta la politica di Pasolini possono arrivare allo spettatore con la stessa incisività; per fortuna la regia di Saponaro e le interpretazioni dei suoi attori riescono a non disperdere il fascino barocco proprio – appunto – del sogno nel sogno (nel sogno).

Calderón, di Pier Paolo Pasolini, fino al 21 febbraio al Teatro Studio Melato

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