Brendan Gleeson dà vita in “Calvary” a una rocciosa figura di prete generoso e razionale. Che finirà travolto dal fallimento etico della sua piccola comunità
Padre James Lavelle (Brendan Gleeson) conduce un’esistenza morigerata e confacente, una volta tanto, all’abito talare che indossa. Ma Calvario di John Michael McDonagh è ambientato in un piccola comunità irlandese dove la moda locale detta una sistematica dissolutezza di costumi che pare aver contagiato ogni abitante: sembra di ritrovarsi in uno zombie-movie dove il virus letale è però sostituito da un cinismo a dir poco agghiacciante.
La confessione di un uomo ripetutamente violentato da un prete durante l’infanzia, e la sua risolutezza nel voler compiere la propria vendetta ai danni di un innocente padre spirituale, Lavelle appunto, diviene subito la chiave di volta dell’intero film, in cui il tempo a disposizione di padre James, prima della fine annunciata, è una settimana, quei famosi sette giorni annunciati telefonicamente in The Ring di Verbinski.
Se la fauna locale è composta da milionari annoiati che urinano sugli arazzi, donne cocainomani amanti dell’adulterio e medici che spengono sigarette su organi destinati ai pazienti, anche il prete e la sua famiglia hanno comunque un passato e un presente impegnativi; Mr. Lavelle, divenuto sacerdote solo in età decisamente adulta, ha un passato da alcolista causato dal senso di colpa per essere stato un padre assente. A seguito della disgraziata morte della moglie, assai amata, abbraccia la fede ma abbandona la figlia (Kelly Reilly) all’autolesionismo e alle sue tendenze suicide. Tentando poi un recupero con lei nella fatidica settimana. Perché ormai si è fatta strada in lui l’idea di ricostruire la propria esistenza cercando di migliorare il piccolo mondo in cui vive. Impresa a dir poco titanica.
I giorni della settimana passano e i fatti sconvolgenti si accumulano: un incendio, chiaramente doloso, distrugge la sua chiesa, un ignoto uccide il suo amato pastore maremmano e le danze irlandesi si fanno sempre più frenetiche sino all’apice della vicenda, in cui l’identità del killer potenziale verrà svelata. Il tutto punteggiato dall’efficace prova di equilibrio e pazienza, quasi infinita, di padre Lavelle, espressa con energia da Brendan Gleeson, che trasmette benissimo lo sconforto di un pastore stanco e provato cui manca il fiato, anche letteralmente, per correre dietro le proprie pecorelle smarrite.
McDonagh denuncia una chiesa piena di menzogne, corruzione, pedofilia, sfruttando in termini cinematografici lo strumento numero uno di ogni purificazione spirituale: la confessione. Che si può svolgere nel confessionale deputato o magari davanti a un doppio whisky al bancone del bar. Il film, forte dell’eccellente fotografia di Larry Smith, calca forse un po’ troppo la mano sulla bizzarria non sempre credibile di questa serie di casi umani e sulla descrizione della solitudine che caratterizza ambienti e personaggi. Così sebbene i doveri religiosi gli impongano di dimostrarsi sempre disponibile all’ascolto e al perdono, la cattiveria e la stupidità umana finiscono per mettere a dura prova il corpo e lo spirito di questo insolito intermediario di Dio.