Canova: chi siamo, da dove veniamo, e dove stiamo andando

In Interviste, Musica

Chiacchierata con Matteo Mobrìci, “cantautore” dei Canova. La band milanese attraversa un momento particolarmente felice dopo l’uscita del nuovo album e la partenza del tour italiano

Tra una sigaretta, una domenica amara, un viaggio a Londra e un pianto notturno, hanno pubblicato a marzo il loro secondo album, Vivi per sempre, e partono ora per un tour estivo che arriverà in tutta Italia. I Canova, band milanese del nuovo movimento indie italiano, hanno alle spalle anni di concerti che sottovoce li hanno allenati a grandi palchi e piazze piene. Dal 2016 a oggi la band ha dovuto fare i conti con il successo e con la propria vita sociale, supportata e pubblicata dalla Maciste Dischi. Dopo l’esordio a Parma di questo giugno, a fine mese li trovate a L’Aquila, e poi Mestre, Roma, fino a Messina (date in continuo aggiornamento sulla pagina Facebook). Non prevedono di fermarsi, né durante né dopo il tour, perché sono in costante produzione, e ora che è arrivato il secondo album sembrano vederne già altri all’orizzonte. Noi abbiamo fatto due chiacchiere con Matteo Mobrìci, “cantautore” della band, come si definisce lui, per capire meglio chi sono e dove stanno andando i Canova.  (Con Mobrìci, voce, chitarra e piano, Fabio Brando al pianoforte, Federico Laidlaw al basso, Gabriele Prina alla batteria).

È appena iniziato il vostro tour estivo, a che punto sono i Canova?
Siamo appena partiti, quest’estate porteremo in giro i due dischi che abbiamo pubblicato, proseguiamo con il lavoro di quest’ultimo anno ma stiamo già guardando avanti, io sto già scrivendo canzoni nuove.

Stai scrivendo anche ora che girate l’Italia?
Sì, non ci si ferma a scrivere canzoni, fortunatamente si pensa sempre a voler fare cose, poi magari arriveranno tempi in cui non ci sarà più niente da dirsi e quindi staremo fermi per anni… ma ora per fortuna non è così!

Quali sono le aspettative?
Per noi i concerti sono i momenti più belli perché è lì che le canzoni riescono ad assumere un’altra veste, perché vengono condivise, vengono cantate. Ogni sera è a sé, può succedere qualsiasi cosa in un concerto, il bello è proprio quello, non c’è ansia. Passando per tanti festival poi ci sarà anche modo di scambiare nuovi rapporti, nuove amicizie con altri musicisti, così diventa veramente il momento più bello dell’anno. Andremo in zone dove non siamo ancora stati quest’inverno, andremo in Sicilia, e in altri posti che non vediamo da un po’. Non ci sono aspettative, questa parte di vita legata ai concerti si affronta molto alla giornata. Possiamo farci duemila pensieri ma poi succedono talmente tante cose in queste situazioni che è meglio arrivare a mente pulita.

Com’è andato il vostro esordio del 2016 con Avete ragione tutti?
Noi allora avevamo perso tutte le speranze, dicemmo “vabbè, registriamo questo nostro primo disco”, ma pensando davvero di registrarlo, darlo a qualche nostro amico e basta. Questa è la storia. Dopodiché abbiamo stretto un rapporto con la Maciste Dischi, che allora era un’etichetta nota a pochissimi, e abbiamo fatto insieme un percorso in cui abbiamo messo l’album su internet e, dopo poche settimane dall’uscita, ci siamo ritrovati primi nelle classifiche di Spotify.

E da quel momento come sono cambiate le cose per voi?
Le cose stavano andando bene, è partito un tour che è durato più di un anno, quindi vedevamo la band crescere concerto dopo concerto. Abbiamo visto questa cosa maturare dal vivo e non dal divano con Instagram in mano. Questa è la soddisfazione più bella. Le nostre canzoni erano finalmente cantate in piazze dove non conoscevamo nessuno! Poi il gioco è diventato qualcosa di più grande, non potevamo più scherzare. Praticamente ci siamo ritrovati in mano un mestiere, con delle responsabilità più grandi di quando eravamo partiti.

Quali sono le dinamiche del gruppo e della scrittura?
Le canzoni le scrivo io, sia testo che musica, quindi diciamo che sono una specie di cantautore dentro una band. Noi abbiamo sempre avuto questo tipo di equilibrio, fin da quando eravamo ragazzini. Per noi la band non è solo un plus da un punto di vista musicale, ma cambia concettualmente il nostro modo di affrontare un’esperienza che facciamo insieme, siamo una sorta di branco. Ovviamente suoneremmo in modo diverso se non fossimo insieme.

E quindi “come siete arrivati qua”?
Suoniamo insieme da quando avevamo 17 anni… abbiamo fatto tanti anni di gavetta vera, andavamo a suonare in locali dove non c’era nessuno ad ascoltarci. Suonavamo un sacco di canzoni che poi buttavamo… ci riciclavamo molto velocemente, fino a che 3 anni fa è uscito il primo disco e per un insieme di cose abbiamo fatto una bella strada. È da tre anni perciò che siamo attivi “pubblicamente”, mentre prima ci sono stati tanti anni di preparazione.

Come avete scelto quello che avete messo in questi due dischi?
in primis sono io che faccio una scrematura delle canzoni e che scrivendo propongo poi agli altri. A loro arriva una selezione quasi finale perché io in realtà sono molto timido, e anche un po’ geloso. Quindi non faccio scegliere agli altri, scelgo le canzoni che piacciono a me (anche se non so se questo sia un bene o un male, ma per adesso è andata bene!).

Del vostro ultimo album, Vivi per sempre, dite che può essere “imperativo, augurio o speranza”, ma può davvero essere una speranza?
Credo di sì, perché l’unica cosa che l’uomo non riesce a vincere è la morte. E per noi che facciamo questo lavoro, le canzoni, come nella pittura o nel cinema, sono quelle parti della vita che riescono a sopravvivere all’orologio. Questo augurio del vivi per sempre non è tanto legato alle nostre vite umane, ma a un concetto di vita più astratto. Penso che tutti, in alcuni momenti della vita, vorrebbero vivere per sempre. La speranza è dedicata a quei momenti che vorremmo non finissero, a quella sensazione di eternità che a volte si riesce a raggiungere quando si ascolta una canzone.

I vostri non sono concept album, però si trova comunque un filo conduttore che racconta un’esistenza, a tratti malinconica, e una ricorrente visione “amara” della vita…
Sì, perché le canzoni sono tutte autobiografiche, quindi hanno come comune denominatore la mia vita. Se dobbiamo parlare di un concept è questo, sono i mesi che passano, le esperienze che si accumulano. E poi anche le frustrazioni maggiori o le paranoie, le canzoni sono una valvola di sfogo emotiva. Fortunatamente le nostre canzoni non nascono in un’ottica discografica, non vengono scritte per essere pubblicate, ma vengono scritte, punto. Faccio questa cosa da quando avevo 16 anni, quando al posto di giocare alla PlayStation mi dedicavo a scrivere. E se a volte è un divertimento, altre invece può essere un dramma, una croce. Diciamo che la parte migliore di te finisce sicuramente lì, però poi la tua vita non sono le canzoni: ci si ritrova con un doppio corpo.

Sembra che ci sia molta Italia nelle parole di questo album.
Io racconto la mia realtà, parto da lì, poi è possibile che il mio punto di vista sia simile ad altri. Quando scrivo, io penso a un noi molto ristretto, che poi questo noi possa diventare collettività è una magia che si crea successivamente. Quando sono lì con una chitarra o con un piano sono da solo per ore, nel buio, quindi non è che sia proprio un “momentone” collettivo, anzi, però poi è vero che quello che viene fuori può essere interpretato in tanti modi.

E Londra (protagonista di Goodbye Goodbye) invece cosa rappresenta per te/voi?
Londra io la odio. È una città che avevo sempre amato da ragazzino perché era da lì che arrivavano tutte le tendenze musicali. C’è sempre stata questa grande venerazione che poi si è interrotta visitandola più volte e vedendo che è una città che ha perso il suo spirito inglese. Le piccole cittadine probabilmente hanno ancora quel sapore brit, mentre Londra è la città più globalizzata d’Europa, non c’è tanta cultura inglese, sembra di essere in un posto indefinito. Quando ci siamo andati l’ultima volta, l’anno scorso prima di chiudere il disco, avremmo voluto provare a suonare in qualche localino, invece non è successo niente, anzi, abbiamo trovato la stessa trap che c’è qua.

Aspettate la Brexit allora per tornarci?
No, io spero di non tornarci più sinceramente. Infatti ho scritto Goodbye Goodbye la sera in cui sono tornato, perché pensavo “non ci tornerò mai”. Ironicamente invece ci siamo dovuti tornare due mesi dopo per girare il video!

E la città dove state voi, Milano, invece?
È assurdo pensare che Milano tra dieci anni potrebbe diventare come Londra, anche perché è una città che sta correndo tanto, il che per molti versi può essere positivo, ma per altri no. Mi spaventa questo.

Rispetto a questa globalizzazione, come sta cambiando anche la musica?
La musica sicuramente evolve, sono cambiate tante cose ormai, la fruizione di oggi è frutto di logiche commerciali nonostante l’avvento di internet, che inizialmente sembrava dover dare un senso di libertà e invece veicola moltissimo la musica, quasi peggio della televisione. Quando siamo usciti noi tre anni fa il discorso indie in Italia non si era ancora affermato, noi siamo stati tra i primi a sgomitare. Ma dopo un anno che eravamo usciti noi è diventato tutto diverso: adesso una band se vuole esordire fa un sacco di fatica, quasi come si faceva dieci anni fa.

Oggi gli indie vanno ai talent…
Infatti, l’indie sarebbe dovuto essere l’anti XFactor, io penso che sia proprio uno dei motivi per cui è nato tutto. Perché la musica nuova usciva da Sanremo giovani o dai talent, e chi non è voluto andare in quei posti si è dovuto fare il mazzo e piano piano ce l’ha fatta…

Prima di voi c’è stato l’indie rock anni ‘90, quali sono invece le vostre influenze più pop?
Sì, questo nuovo indie è nato come un contenitore – in cui noi siamo stati inseriti a posteriori, si è sviluppato più come attitudine, come linguaggio, che come stile musicale. È una rivoluzione pop, che è molto diversa dall’indie italiano precedente, più radicale e più distante da tutto il mondo pop. Noi siamo cresciuti con il cuore rivolto a realtà fighe all’estero che in Italia non sono mai riuscite a partire, come gli Oasis, gli Strokes, i Coldplay, tutto quel brit pop che qui da noi non è mai stato emulato. La forma canzone era quello che teneva insieme i nostri gusti.
Poi, come si diceva prima parlando di fruizione, è vero che in un anno oggi cambia tutto. La scena indie si modifica continuamente e molto velocemente. Noi ci facciamo i fatti nostri, dobbiamo fare i conti con noi stessi, con la musica che facciamo, senza inseguire altro. Noi continueremo a portare avanti il nostro discorso finché avremo attenzione, vediamo sempre tutto in modo molto naturale, senza grandi schemi.

Programmi per il post tour?
Non si sa, però sicuramente io non voglio stare con le mani in mano, quindi se ci sarà materiale che ci darà soddisfazione, anche se il nostro secondo disco è uscito a marzo, non è detto che non possa uscire qualcosa di nuovo a breve. Vedremo come va quest’estate con il tour, che dovremo alternare alla scrittura, all’arrangiamento dei nuovi pezzi, bisognerà lavorare su binari diversi.

C’è un’ultima cosa che molti vorranno sapere: chi è il cagnolino del video di Domenicamara?
Aaah, il cagnolino di Domenicamara si chiama Milù! È una femmina e convive con l’attore che nel video interpreta il killer (tra l’altro lui nella vita fa il veterinario!). Quando si cercavano gli attori per il video li hanno trovati in coppia: la bravura di Milù è che segue perfettamente le indicazioni del suo “compagno”, quindi sembra una cagnetta addestrata, di quelle che fanno cinema! Tutte le scene sono state girate con lui accanto, era dovuta a questo la magia che si percepiva tra di loro.

Anche Milù sopporta una vita amara?
No, lei in realtà è abbastanza indipendente da questa vita amara, che purtroppo resta un fattore più umano.

 

 

Immagine di copertina © Francesco Prandoni

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