Un disco politico, nel senso di un’immersione inquieta nello spirito del tempo. I testi di “Tredici canzoni urgenti”, lontani dallo spirito militante di una volta, volano alto. E ce n’è per tutti. La guerra, il femminicidio, la libertà degradata a consumismo sfrenato, ma anche l’amore, l’importanza del dono. Una poetica beffarda, intensa, commovente rivestita da una musica raffinata che spazia dal reggae al rebetiko greco, dalla musica popolare alla sperimentazione. Un album destinato a restare
Un disco politico, nientemeno, in un’epoca di fuga dalla politica, di passioni tristi e individuali. È Tredici canzoni urgenti, dodicesimo album di studio di Vinicio Capossela, il miglior disco d’autore di questa prima metà dell’anno. Un disco politico non nel senso dell’antica innodia di sinistra, della canzone militante e stentorea, ma nel senso di un’immersione inquieta nello spirito dei tempi.
«Sono canzoni che riguardano un mondo irragionevole e in fase di trasformazione» dice Capossela. «Viviamo un’epoca fatta di emergenze civili, umanitarie, sessiste, fasciste, xenofobe, ambientali. Siccome sono le emergenze a muoverci a qualche forma di reazione, l’urgenza di questi brani è la risposta all’atomizzazione della società che oggi sembra ridotta all’individuo, persino se si parla di istituzioni o di geopolitica».
La libertà? Oggi si è degradata a consumismo sfrenato, l’abbuffata di cibo che diventa metafora del saccheggio del mondo. «Mangiati il sistema, mangiati il low cost/ Divorati la terra, divora il permafrost/ C’è la convenienza, c’è la quantità/ Non devi più scegliere, sei la divinità/ E se non è tutto quello che vuoi / È tutto quello che puoi (all you can eat)» canta Capossela in All you can eat, musica nervosa e vagamente Motown. E aggiunge – le canzoni dell’album sono state scritte tra il febbraio e il giugno del 2022 – con una strofa che suona controcanto a recentissime beatificazioni: «Se tanto è tutto uguale/ Se non conta più studiare/ Se non conta più sapere/ Se siamo irrilevanza/ Se non c’è differenza nella terra dell’abbastanza/ Se non c’è principio né speranza allora mangia (all you can eat)».
Vinicio Capossela (Foto: Guido Harari)
È la libertà dei poveri, lo aveva già notato acutamente Jonathan Franzen per l’America («La gente è venuta in questo Paese o per il denaro o per la libertà. Se non hai denaro, ti aggrappi ancora più furiosamente alle tue libertà. Anche se il fumo ti uccide, anche se non hai i mezzi per mantenere i tuoi figli, anche se i tuoi figli vengono ammazzati da maniaci armati di fucile. Puoi essere povero, ma l’unica cosa che nessuno ti può togliere è la libertà di rovinarti la vita nel modo che preferisci»), adesso è anche cosa nostra.
Dalla parte del torto, la vecchia massima brechtiana («Ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati»), con una sinistra che ha appannato la sua ragione d’impresa di contrasto alle disuguaglianze, è diventata rivendicazione buona per i populismi e per gli “underdog” meloniani. «E se sei razzista e se sei sessista/ Che problema c’é?/ Dalla parte del torto/ Detassati e ignoranti, egoisti, opportunisti/ Tutti a cuor contento/ Dalla parte del torto/ Tutti brutti e sinceri quando saremo tanti/ Quanto saremo veri/ Dalla parte del torto».
La società ridotta a individuo, atomizzata e passiva, è quella di Sul divano occidentale, che chiama ai cori gloriosi esponenti del pre trip-hop anni ‘90: Sir Oliver Skardy dei Pitura Freska, Bunny degli Africa Unite, Raiz degli Almamegretta. «Sul divano occidentale/ Arruolati da sdraiati/ Disputiamo, guerreggiamo/ Interventisti sul divano/ Sul divano sorvoliamo/ Sui conflitti, sulla storia/ Atterriamo, decolliamo e poi planiamo/ Sul divano».
La guerra però c’è, anche se sul divano è un fastidioso rumore di fondo. Senza entrare nella polemica da talk show, Capossela dice la sua volando alto. Ispirata a un poemetto di Bertolt Brecht è la commovente, intensa La crociata dei bambini: su una banda di ragazzi fra i quattro e i quattordici anni accompagnati da un cane che, nella Polonia devastata dai nazisti, va alla ricerca di un paese dove ci sia la pace, senza sapere la strada e senza trovarlo. E ispirata a Ludovico Ariosto – gli si rende omaggio anche in Ariosto governatore, dedicata alla sua deludente esperienza in Garfagnana – è la beffarda e vibrante Gloria all’archibugio, che maledice il capostipite di tutte le armi che ancora ci appestano.
Le guerre di casa di nostra si chiamano, per larga parte, femminicidi. Scritta con Margherita Vicario è La cattiva educazione, sommessa nell’andamento e netta nell’enunciato, che si apre citando Bella ciao: «Questa mattina non mi son svegliata/ E l’invasore ce l’avevo in casa/ Inseguita controllata minacciata/ Nel tossico vestito dell’amore/ Una camicia di veleno quel vestito/ Che brucia il tempo e tutte le sue ore/ Il pentimento e poi le scuse e il farò meglio/ Sono le maschere che hanno armato il coltello// Son stati i padri/ È stato il sacrificio/ Son stati i rifiuti a cui non si è educati/ È stata la cattiva educazione/ Che non ha mai insegnato l’emozione/ È stato il falso romanticismo/ Che non si romanzi più l’orrore e il disonore/ Non c’è niente, niente da salvare/ Chi ha ucciso, ha ucciso e questo è criminale». Nell’indagine sui nostri brutti tempi, si chiude con il carcere. Ispirata da Fine pena ora del giudice Elvio Fassone, Sellerio, libro consigliatissimo, è Minorità: «A chi servirà una pena che/ Che non sa cambiare ma solo consumare?/ Che senza riabilitare è solo pena corporale».
L’altra faccia della medaglia in Tredici canzoni urgenti sono le piccole e grandi cose in cui credere: l’importanza del dono (Il tempo dei regali ispirato dal resoconto di viaggio omonimo di Patrick Leigh Fermor), l’amore («Il mondo cade a pezzi/ Il gas sale alle stelle/ L’alluminio rincara/ Il Brent impenna/ La benzina si infiamma/ L’oro si rafforza/ La speranza si riduce/ Ma tu sei/ Il mio bene rifugio»), la necessità di fare esperienza diretta della vita senza farsela mediare da computer e videogiochi (Cha cha chaf della pozzanghera: e lasciateci sguazzare felice il bambino), il lascito da custodire della Resistenza (la bellissima Staffette in bicicletta cantata con Mara Redeghieri degli Ustmamò: «Serafina, Alice, Anita/ Passa il ferro, l’arma, la vita/ Passa il testimone/ Che arrivi fino a noi/ Come il vento di primavera non si ingabbia nella rete/ Come i vostri capelli, come i sorrisi/ Come l’aria quando corre in bicicletta/ Questa è la libertà, azione e responsabilità»).
Nella canzone d’autore i testi contano, e in queste canzoni di Capossela contano più che mai. Non vorrei però dare l’impressione di un festival della parola che la musica si incarica di rivestire. Autore eclettico e raffinato, abituato a spaziare fra tango e Balcani, Tom Waits e rebetiko greco, musica popolare e sperimentazione, Capossela si circonda in questo album di strumenti e strumentisti di valore: gli irrinunciabili camei di Marc Ribot e Greg Cohen collaboratori di Waits, sontuosi arrangiamenti d’archi e fiati, ma anche l’intonarumori di futuristica memoria e il theremin che è stato il precursore di tutti gli strumenrti elettronici. E le musiche spaziano dalla ballad al reggae, dal jive a cha cha cha, dal valzer al soul, fino a recuperare un’antica e nobile forma come la folia rinascimentale.
Resta, a conclusione di un disco importante e destinato a restare, l’invito (Con i tasti che ci abbiamo, splendida) a non cercare mete impossibili e a fare con quel che si ha. «Con i tasti che ci abbiamo/ Solo quelli suoneremo/ Una melodia sdentata/ Una melodia trovata/ Con i tasti che ci abbiamo/ Bianchi e neri, giocheremo/ E di un limite faremo/ Una possibilità».
Fotot di copertina: Jean-Philippe Pernot