Qualche pensiero sulla mostra “L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri” alle Gallerie d’Italia. È una “Storia di tre città”, ma anche una storia di due fratelli. Racconta le vicende di due pittori grandissimi: Bernardo Strozzi e Giulio Cesare Procaccini. È una mostra su Caravaggio e non-Caravaggio. È una mostra da non perdere.
Si è chiusa il 4 febbraio la mostra su Caravaggio di Palazzo Reale. In termini di numeri è stato, come era facile immaginare, un trionfo: sale sempre gremite e coda di visitatori perennemente snodata nel cortile del Palazzo. Chi è convinto che non bastino grandi opere per fare una grande mostra potrà avere da ridire: che non basti l’ostensione, che si debba costruire, attraverso le opere, un discorso. Ma è stata senza dubbio una esposizione imponente per quantità e qualità dei dipinti messi in campo: una parata di capolavori, giunti anche da molto lontano.
Ma la macchina caravaggesca non conosce tregua – e men che meno la troverà ora, visti i numeri dell’esposizione milanese. Dal 19 al 21 febbraio sarà nelle sale cinematografiche Caravaggio – l’anima e il sangue, un documentario sull’artista prodotto da Sky. Certo: già solo il titolo suscita qualche inquietudine: si vorrebbe sperare di essere fuori, ormai, dalla narrazione di Caravaggio come rockstar maledetta ante litteram. E invece, ancora, locandina con testa mozzata e pennellata rosso sangue a imbrattare il nome dell’artista. A prestare la voce all’artista – e la scelta a questo punto ha una sua coerenza – è Manuel Agnelli…
Un’altra esposizione, in corso a Milano presso le Gallerie d’Italia, parrebbe legarsi all’ondata di manifestazioni su Michelangelo Merisi. Si tratta di L’ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi maestri, curata da Alessandro Morandotti alle Gallerie d’Italia di Piazza della Scala fino all’8 aprile. Qui però il discorso si fa molto più complesso.
A dispetto del titolo, che paga il suo obolo al marketing, la mostra non è su Caravaggio. Anzi: assunto dell’esposizione è proprio dimostrare come anche in quegli anni, anche in città toccate dall’esperienza caravaggesca, il panorama artistico non si possa ridurre soltanto al grande artista. Esistono altre esperienze artistiche, altre personalità anche grandissime: un panorama molto più fitto di artisti, una trama di relazioni complesse che la mostra riesce a raccontare con una selezione di opere di qualità strepitosa.
Moltissime sono le chiavi di lettura per affrontare l’esposizione. È, a suo modo, una “Storia di tre città”: Milano, Napoli, Genova. Nella prima Caravaggio è nato; eppure Milano appare particolarmente sorda alla novità caravaggesca: diversa, e a suo modo superba nel suo estenuato manierismo, è la pittura che si fa in città. I nomi sono quelli di Giovan Battista Crespi detto Cerano, del Morazzone, di Giulio Cesare Procaccini, di Daniele Crespi; sullo sfondo il cardinal Federico Borromeo e la peste manzoniana che incombe.
Nella seconda, Napoli, Caravaggio ha risieduto complessivamente per quasi due anni in due differenti periodi, lasciando opere fondamentali. Qui prende piede una vera tradizione caravaggesca, fedele agli aspetti più macilenti dell’opera di Merisi. Un’ortodossia alla lezione del maestro fatta di piedi sporchi e volti rugosi, segnati dalla fatica dell’esistenza, sempre a un passo dall’esaltazione mistica. Ne saranno protagonisti tanto pittori locali, come Battistello Caracciolo, quanto un geniale spagnolo naturalizzato napoletano, ma fulminato da Caravaggio fin dai tempi di Roma: Jusepe de Ribera.
Nella terza, Genova, arrivano fin dall’aprirsi del secolo diverse opere dell’artista, per la munificenza di facoltosi committenti. Qui giunge anche il capolavoro estremo di Caravaggio, quel Martirio di Sant’Orsola in cui la pittura, ridotta a pochi toni, pare quasi consumata nell’urgenza. La tela è spedita da Napoli a Genova nei giorni stessi in cui il pittore si imbarca per il suo ultimo viaggio: sarebbe morto di lì a poco, nel luglio del 1610, sulla spiaggia di Porto Ercole.
È su questo dipinto, già anche a Palazzo Reale, che si apre l’esposizione. Ma si tratta dell’unica opera di Caravaggio presente in mostra: da qui in avanti, il discorso è portato avanti da altri protagonisti. Sono, in primo luogo, il genovese Bernardo Strozzi e il milanese – ma di origine bolognese e attivo a Genova in anni decisivi – Giulio Cesare Procaccini: al centro dell’esposizione sta il racconto dei loro percorsi, tra liberissime rimeditazioni caravaggesche, reciproci scambi e fascinazioni fulminanti per i grandi fiamminghi di passaggio per Genova in questi anni –Rubens prima e Van Dyck poi, ben presentati in mostra.
Procaccini e Strozzi sono due pesi massimi dell’arte italiana del Seicento, sorprendenti per qualità pittorica, felicità cromatica, libertà inventiva (memorabile la sala con i dipinti di piccolo formato) e di stesura: velature leggere di panni che si increspano, baluginii di luci sui tessuti, rossori e trasalimenti che affiorano sempre sulle guance.
Il tentativo di portare al centro dell’attenzione del pubblico la statura di Genova come capitale artistica tra le tante della Penisola, è uno dei meriti della mostra. Non c’è città italiana la cui tradizione artistica sia così sottovalutata nella percezione diffusa. Le cose sarebbero forse andate diversamente se Roberto Longhi avesse dato alle stampe la progettata monografia sulla città: ma la Genova pittrice è rimasta allo stato di abbozzo e il capoluogo ligure fatica a trovare il posto che le spetterebbe nella geografia artistica italiana.
Ma la mostra è anche la storia di due fratelli: Marcantonio e Giovanni Carlo Doria. Esponenti della più prestigiosa tra le famiglie del patriziato genovese, sono entrambi collezionisti di gusti sopraffini ma molto diversi. Il primo si appassiona a Caravaggio e ai suoi epigoni napoletani: è lui a far arrivare a Genova il Martirio di Sant’Orsola. Si fa ritrarre, compito e in nero, da Justus Sustermans, il ritrattista fidato di casa Medici. Giovanni Carlo è più incline alle seduzioni dell’opulenza pittorica di Rubens, che lo immortala a cavallo in un ritratto indimenticabile. Sarà lui a chiamare Giulio Cesare Procaccini a Genova, a proteggere Bernardo Strozzi, ma anche Van Dyck, Simon Vouet… la sala dedicata alla sua collezione, tra le più importanti dell’Europa di allora, è forse la più impressionante dell’esposizione.
Non mancano, in mostra, le nuove proposte: si presenta al pubblico, per esempio, una nuova, importante pala d’altare del Genovesino, qui come non mai vicino alle esperienze milanesi di Daniele Crespi. Genovesino (Luigi Miradori, detto il) è un grande artista di origini liguri ma attivo soprattutto a Cremona, dove si è appena chiusa una bella mostra a lui dedicata. Un altro nome che piacerebbe trovasse pian piano il posto che merita nel gradimento del pubblico, anche fuori dalle discussioni degli specialisti.
Né alla mostra difetta il senso teatrale: dall’apertura con il confronto, quasi una dichiarazione programmatica, tra le tre versioni, simili per invenzione ma tanto distanti per la pittura, del Martirio di Sant’Orsola (una di Caravaggio, una di Strozzi, una di Procaccini), fino al colpo di teatro del finale: la gigantesca Ultima Cena dipinta da Giulio Cesare Procaccini per la Chiesa della Santissima Annunziata del Vastato di Genova: 38 metri quadrati di pittura, giunti a Milano dopo un complesso restauro a Venaria Reale.
È, insomma, l’Ultimo Caravaggio una mostra affascinante: una sorta di mostra di “Non-Caravaggio”, gioiosamente inscenata come le feste di non-compleanno del Cappellaio matto. Alla celebrazione monolitica del genio solitario, contrappone un affresco molto più ricco di uomini, di rapporti, di incontri, di scelte: un affresco molto più vicino alla storia.
Immagine di copertina: Giulio Cesare Procaccini, Ultima Cena, 1618, Genova, Santissima Annunziata del Vastato.