Esiste il carcere di “Cattivi”? E perché non usare la stessa spietatezza rispetto al reato? La lettura critica di Lucia Castellano, ex direttrice del carcere di Bollate
Cattivi di Maurizio Torchio è un libro durissimo com’è durissimo il carcere. Si sarebbe potuto intitolare “Cattivo” al singolare, perché il cattivo vero nel romanzo, ma purtroppo, ancora oggi, nella realtà, è il sistema carcere.
C’è una frase del libro che dice: «Un ordine è più intenso se non serve». Certo, è la mortificazione dell’imposizione fine a se stessa. Ma a chi e a che cosa serve tutto questo?
Ricordo quando più di vent’anni fa cominciai a lavorare nel carcere di Marassi a Genova: dopo pochi mesi realizzai che se avessi voluto rimanere lì dovevo cercare di cambiare il sistema, altrimenti sarebbe stato meglio andarsene. Altrimenti avrei fatto la fine del Comandante, il capo della galera di Cattivi, prigioniero di un’istituzione totalizzante che annienta tutti, detenuti e operatori.
Usa toni aspri e non fa sconti a nessuno Maurizio Torchio, che ho conosciuto quando ero direttore della Casa di reclusione di Bollate e mi ha chiesto di visitare il carcere. Sono contenta di averlo fatto perché ci sono parti del libro che sono frutto delle nostre conversazioni e che lui è riuscito a cogliere narrando l’agghiacciante “banalità del male”.
Ecco allora, per esempio, la routine delle ispezioni dei detenuti quando rientrano dopo un permesso: quel corpo che fino a poco prima era tra le braccia di una donna, si mostra nudo davanti a una guardia, dal caldo dell’amplesso a una nudità esposta, mortificata.
Certo, le ispezioni servono: bisogna esaminare la bocca, il naso, le orecchie, le dita delle mani e dei piedi per verificare che non ci sia nascosto nulla. Ma poi si arriva alle parti più intime: al detenuto si chiede di spogliarsi e di mettersi a 90 gradi, è la cosiddetta flessione per verificare che non ci sia nulla di nascosto nell’ano. Un’inutile mortificazione perché o ci metti le mani o da quel buco non esce nulla.
Ma si fa, è una prassi non ancora eleminata purtroppo e che continua a schiacciare l’individuo per dirgli «tu non esisti«.
Il carcere di Cattivi è un luogo immaginario. E se come operatore dovessi entrare nel dettaglio, avrei più di una critica da muovere: l’isolamento nell’isolamento così come viene descritto non esiste più, oggi persino i detenuti del 41 bis non stanno mai da soli; così come il buio totale o il pane punitivo sono ingredienti da fiction.
Ma è l’idea del carcere come luogo del non senso che, da lettore, mi ha accompagnato dall’inizio alla fine: se lo scopo del carcere è quello di essere il luogo della rieducazione, di restituire persone migliori, il carcere che descrive Torchio non serve così come la flessione non serve a trovare la droga nell’ano.
Vittime di questo regno dell’atroce sono anche le guardie. Le chiamo guardie e non come giustamente dovrebbero essere denominate poliziotti penitenziari perché la parola usata dall’autore restituisce bene lo spaesamento rispetto alla vita reale: quando un gruppo di guardie lascia l’isola del carcere per andare sulla terraferma si ritrova a passare i giorni di vacanza con delle prostitute. Come i detenuti, le guardie non riescono a staccarsi da quella che Giuliano Naria chiamava la “Casa del nulla”.
Il lavoro del poliziotto penitenziario è un mestiere usurante, mal pagato, che obbliga molti di loro a vivere in caserma, che magari si trova al piano superiore delle celle. In queste condizioni, conservare il lato umano è difficile. Come si può affidare un ruolo rieducativo a una persona che sta male?
I sentimenti, che entrano dagli spifferi, sono distorti: barlumi di pietà, di umanità, che si intravedono quando per esempio il Comandante si mette col gomito sul blindo a chiacchierare col detenuto e gli racconta le riflessioni di chi ha vissuto tutta la vita nel non senso.
E poi c’è l’idealizzazione della libertà: i detenuti pensano che fuori dal carcere sia tutto meraviglioso, invece quando vieni scarcerato ti trovano esattamente con i problemi di tutti aggravati dal fatto che sei un ex detenuto. E sono molti quelli che, una volta usciti, vogliono rientrare.
Ma il culmine, il gran finale dell’atrocità del carcere avviene quando il protagonista uccide la guardia perché lo stava trasportando nella sezione degli infami: io mi sono rivista giovane direttore nel carcere di Marassi dove c’era il reparto degli infami e ricordo i detenuti che con orgoglio rivendicavano il loro status da primo reparto (quello degli infami era il terzo).
Una follia nella follia perché non solo il carcere annienta le persone, ma nell’annientamento crea delle gerarchie. Per chi collabora (come per chi commette reati sessuali), lo Stato usa il termine “protezione”, ghettizza i protetti, rendendoli più paria degli altri.
E Torchio è bravo a esprimere l’insopportabilità di questa condizione con un gesto esasperato: per non finire là dentro, il protagonista uccide la guardia che lo sta portando, commette un omicidio e si condanna a vita per questo.
Concludo con una nota critica e una domanda: il reato che ha portato il protagonista in carcere era il sequestro di persona di una donna, “la principessa del caffè”, che, con un gioco di specchi, Torchio racconta con indulgenza come una storia romantica.
Il sequestro è il delitto più orrendo perché annulla la persona, proprio come il carcere. La disumanità è la stessa, e allora perché non usare lo stesso tono spietato?
Foto: Federica Neeff