Nell’opera tratta da Merimée e Bizet Mario Martone svolge un dionisiaco parallelo tra l’eroina zingara e la città partenopea, seguito e inseguito dall’Orchestra di Piazza Vittorio
Il primo debutto Expo al Piccolo è una Carmen napoletana, ‘a Carmén di Mario Martone, uno scostumato adattamento meticcio del testo di Enzo Moscato. Meticcio come il complesso crogiolo dialettale in bocca alla protagonista, per cui si ringraziano i fondamentali sovratitoli a uso degli spettatori.
Troppo si è detto sulla distanza dello spettacolo da Bizet: un’excusatio non petita subito smascherata da Preludio e Chanson bohème tratte dall’opera, risuonati in sala a pochi secondi dallo spegnimento delle luci. L’orchestrina allestita in platea – quella di Piazza Vittorio diretta da Mario Tronco – ha accompagnato l’intero spettacolo con rielaborazioni da banda della partitura originale intersecate a tarantelle e melodie tipicamente partenopee.
Ma a creare l’atmosfera folkloristica ci ha pensato soprattutto la regia del maestro napoletano, che le ha pensate tutte per calare il pubblico in una sceneggiata il più tipica possibile. Iaia Forte è la star della serata, nonché la ragione principale per vedere lo spettacolo. Nella sua conturbante agitazione risiede infatti l’elemento più autentico della regia. Verso la fine la Forte si definisce in una battuta «un equilibrio di rime e volgarità», e proprio in quest’affermazione è dichiarato l’intento dell’intera messa in scena.
Ma Martone conta troppo sulle inconfondibili luci di Pasquale Mari – suo collaboratore anche nella splendida Cavalleria rusticana alla Scala – per passare in un attimo dal faceto al serio, dalla sguaiataggine alla poesia. Né bastano dotte metafore di edipici accecamenti inflitti – qui il José/Cosé di Roberto De Francesco non uccide la sua amata ma le cava gli occhi – per evocare tutti i possibili “multiversi” interpretativi che il regista ha in mente. Ciò che mi sembra manchi allo spettacolo è una vitalità veramente genuina: come se le scene fossero studiate più per stupire che per una nuova poetica del regista. Più formalista che caciarone, Martone è magnifico proprio per l’eleganza trattenuta e coreografica di certe sue intuizioni: ad esempio la processione della Pasqua in Cavalleria rusticana, o l’equilibrio del Vesuvio in eruzione mentre Germano legge la Ginestra nel Giovane favoloso, o ancora il ritmo curatissimo del luogotenente accoltellato che si trascina sul palco in questa Carmen – riferimento all’originale di Mérimée eliminato nel libretto di Meilhac e Halévy.
Proprio nel suo ultimo film c’è per esempio un ritratto di Napoli molto più efficace della pur dinamica drammaturgia di Carmen. Certo si riconoscono i perfetti tempi a incastro e lo stile signorile del regista, ma il teorema secondo cui all’eversione morale della protagonista corrisponde una sua immacolata sincerità sembra forzato. Lo spettacolo propone un parallelo a ogni costo tra Carmen e Napoli, uniche entità schiette in un mondo interamente costruito sull’ipocrisia. Ma Carmen non è sincera, perché Carmen non è una ribelle superomistica capace di dire nicciani e maiuscoli Sì: Carmen è istinto, un sostantivo che sta fuori dall’orizzonte di verità e menzogna.
La liberatoria chiusa dello spettacolo «Musica maestro» rimanda in effetti all’unica modalità di rappresentare quel conflitto di ineffabili passioni della zingara: un dionisiaco groviglio orgiastico di note che Bizet è stato capace di dedicarle. Perciò sorge il sospetto che questo tentativo di metamorfosi dell’amatissima storia di amore e morte non si allontani poi tanto dal suo punto di partenza.