Emma Dante fa della popolare sigaraia di Bizet un capro espiatorio. Così l’oiseau rebelle viene sacrificato in nome del bigottismo
La Spagna assolata dei toreri, amori ribelli che non conoscono fedeltà, una morte nell’arena che pare scritta da Hemingway. Emma Dante, con Palermo tra le dita, si orienta disinvolta in un materiale terreno e sensuale: la sua Carmen è andalusa, sopra le righe, tutta sbagliata, ma bella, bella che viene sempre voglia di rivederla. Fortuna che il Teatro Alla Scala ogni tanto la rimette in cartellone, e siamo alla seconda ripresa più la Prima del 2009: le recite continueranno anche in giugno fino al 16, in pieno Expo.
Nelle note di regia la Dante accosta eros e thanatos e parla di passione che degenera in delitto, ma non dice proprio tutto. La regista in Carmen non si limita a narrare un fatto di cronaca, un banale omicidio passionale, ma si spinge in fertili direzioni che forse non immaginava nemmeno.
Proprio Hemingway in Morte nel pomeriggio scrive che un racconto di prosa, come un iceberg, è davvero grande per i due terzi di pagine che non vengono scritte. Autonoma fino all’impertinenza, un’opera d’arte — teatro compreso — prende vita per la ricchezza dei suoi impliciti e delle sue allusioni, che possono sfuggire persino alle intenzioni dell’autore.
Carmen non è soltanto la storia delle passioni travolgenti di una ribelle: la Carmen della Dante parla soprattutto del sacrificio rituale di un capro espiatorio. Come direbbe René Girard, in principio era la violenza. E non violenza indiscriminata, irrazionale e selvaggia, ma violenza incanalata in uno scrupoloso apparato rituale. Violenza come omicidio pubblico, necessario ad assemblare i brandelli di una società in pericolo.
Il capro espiatorio sarà per forza un individuo unico e speciale. Come Carmen: donna prima di tutto e bella, violenta, facile a concedersi agli uomini, un po’ criminale, del tutto ignara di questioni morali e religiose. Se si aggiunge il fatto che è pure zingara il teorema è dimostrato: Carmen deve morire, non può che morire.
Perché Carmen porta scompiglio ed è un pericolo. Per lei ci si batte a duello e gli uomini cominciano ad assomigliarsi tutti, accomunati dal medesimo oscuro oggetto del desiderio. E nulla in certi casi è più pericoloso dell’uguaglianza, inevitabile sinonimo di rivalità e anarchia.
Proprio per questo la Dante mette simboli di morte fin dall’apertura del sipario: un vuoto carro funebre con le prefiche già in postazione per piangere la martire. E Carmen, da bravo oggetto di vittimizzazione, accetta di buon grado il suo ruolo. Per un’intuizione di regia consegna lei stessa a Don José — più boia che assassino — il pugnale con cui verrà uccisa: non come estremo simbolo di coito, ma per l’improvvisa consapevolezza della propria parte.
Se infine si ripensa al tema della predestinazione accennato dai violoncelli fin dal preludio, tema ripreso poi per tutta l’opera fino alle ultime disperate parole del disgraziato Don José, è chiaro che i simboli di morte della Dante trovano un evidente parallelo in partitura.
La morte di Carmen è un caso ottocentesco di femminicidio, di una donna uccisa perché incapace di stare entro i bordi delle convenzioni: femminicidio non come delitto passionale — come spesso viene frainteso —, bensì come delitto di genere. Morire da donna che rifiuta un ruolo eteroimposto di impronta religiosa, bigotta e maschilista. Carmen non è affatto libera come sostiene, ma è un “oiseau rebelle” che ha ben presente l’inevitabile meta della sua rivolta.
Trionfa il mezzosoprano Elīna Garanča, improbabile Carmen bionda
Commovente, miracolosa, magistrale: inutile girarci attorno, la Carmen diretta da Massimo Zanetti al Teatro alla Scala sfiora il sublime. Roboante nell’ouverture, soave nei passaggi più intimisti, il tocco vibrante del direttore coglie ogni sfumatura dell’opera con straordinaria precisione, dando quasi l’impressione di saper disegnare i personaggi con le note.
Trionfatrice della serata il mezzosoprano lettone Elīna Garanča, nei panni di una (improbabile) Carmen bionda, che convince grazie alle sue eccellenti doti di interprete e alla sua voce piena, sicura negli acuti e di notevole volume. Affascinante nell’ Habanera, sfrontata nella Seguedilla, la Garanča dà il meglio di sé nel quarto atto, strappando un’ovazione nel finale.
Molto bene anche il soprano rumeno Elena Mosuc, voce forse un po’ leggera per il ruolo di Micaela, ma capace di passare agilmente dalla dolcezza di un pianissimo a un canto più intenso e appassionato, come dimostra nei duetti con Don José del primo e del terzo atto.
Tecnicamente impeccabile l’aria del terzo atto Je dis que rien ne m’épouvante, anche se forse manca un po’ di emozione.
L’unica pecca di questa Carmen sono i protagonisti maschili. Il baritono Vito Priante (interpreta il torero Escamillo), legnoso e dinoccolato nella recitazione, quando canta stenta a farsi sentire; mentre il tenore José Cura, grande attore ma non altrettanto grande cantante, come Don José si trova in grosse difficoltà fin dal primo atto, stringendo i tempi, anticipando l’orchestra e fuggendo dagli acuti come da un basilisco.
Cerca poi di riscattarsi, dopo un Halte-là! Qui va là? Dragon d’Alcala! dall’intonazione quantomeno bizzarra, nella celebre aria del fiore (La fleur que tu m’avais jetée): cantandola senza piani, senza morbidezze, ma almeno con gli acuti.
Eccezionale l’esecuzione — spesso bistrattata — degli intermezzi, che grazie a Zanetti prendono vita: poetica, sognante, struggente quella dell’ Andantino quasi allegretto tra il secondo e il terzo atto, dove le note sembrano sbocciare come fiori; sanguigna, energica, quasi sincopata quella dell’Aragonese, che già prelude alle atmosfere del quarto atto.