Il regista di “Halloween” e “Fuga da New York” ha lasciato il cinema per i videogiochi. Ma soprattutto per una la sua nuova/antica professione, la musica, che aveva da ragazzo tentato di frequentare. Oggi, alla guida di una band che vanta un suono aspro e acido, forte di un paio di “Lost Themes” che ripropongono le musiche dei suoi film più “spaventosi”, sfida il pubblico dei festival giovani: come Primavera Sound, dove ha trionfato davanti a 15mila persone. E ad agosto sarà a Roma e a Torino
Cosa ci fa un venerato maestro del cinema horror sul palco di un festival rock giovane e giovanilista come il Primavera Sound di Barcellona? Suona per la prima volta nella sua vita, abbrivio di una tournée che passerà anche dall’Italia, il 26 e 28 agosto rispettivamente a Torino e a Roma. Lui è John Carpenter, 68 anni, da qualche stagione defilato rispetto alla gloria del grande schermo ma attivissimo come musicista: da sempre lo conoscevamo per le colonne sonore dei suoi film – Halloween, La cosa, Fog, 1997: Fuga da New York, Grosso guaio a Chinatown,… – ma da qualche tempo ha deciso di lasciare una impronta più decisa a questa vocazione “secondaria”, e dall’inizio del 2015 a oggi ha già pubblicato due album, Lost Themes e, vista l’accoglienza, Lost Themes 2, editi da una piccola e vitale etichetta di Brooklyn, la Sacred Bones. Carpenter, che fino a oggi si era limitato a giocare in studio di registrazione tra tastiere elettroniche, sintetizzatori ed effetti speciali, ora sembra aver preso l’impegno sul serio, al punto da accettare le offerte per una serie di performance live, dove si fa accompagnare da un combattivo quintetto elettrico guidato dal figlio Cody, tra chitarre e un ricco set di keyboards.
Il concerto a Barcellona, svoltosi davanti a un pubblico in adorazione, quindicimila persone almeno, è scattato alla mezzanotte, come si conviene a un maestro del cinema più inquieto e inquietante dagli anni Settanta a oggi. I rintocchi delle sue partiture (“Ma io non ho mai saputo leggere o scrivere una nota”, confessa), si diffondono tra le tenebre, mentre la proiezione di scorci dei suoi titoli più famosi fa il resto.
È un’esibizione di musica strumentale, e tra un’esecuzione e l’altra Carpenter esibisce tutta la sua sorpresa per quella folla. “Ho passato gran parte della mia vita immaginando i modi per procurare panico, tensione, e adesso che il cinema lo frequento meno spero di riuscirci con la musica”. Spiega che questo mestiere parallelo è tutt’altro che un ripiego: già da adolescente aveva iniziato a suonare in un gruppo di volonterosi, Coup de Villes, ma essendo privo di ogni talento alla fine aveva preferito recedere per dedicarsi al cinema. Si capisce anche in questa applauditissima sortita che le sue creature si nutrono della stessa linfa, e che le sue colonne sonore, tracciate dopo aver studiato e amato grandi musicisti, da Ennio Morricone a Bernard Herrmann (“Secondo me le sue composizioni per Vertigo di Alfred Hitchcock sono il risultato più alto raggiunto con le musiche da cinema”), sono effettivamente un corpo unico.
Racconta di avere sempre operato da autodidatta, procedendo per intuizioni, ma l’efficacia di quei temi brevi, scanditi dalle inquadrature secche, mostruose, di terrore strisciante, appaiono più che mai efficaci anche al contatto con una folla da festival, onnivora e curiosa come poche. La band che lo circonda, con massimo rispetto, ha un piglio aspro e acido, come forse dai dischi fatica a emergere: se per un’ora Carpenter riceve tale e tanto conforto non è solo per la disponibilità dei cultori del suo cinema, nell’universo sospeso che traccia tra una esecuzione e l’altra rientrano tutti gli ingredienti di una storia fatta anche di tonfi commerciali riscattati però spesso da riconoscimenti postumi, di critica e di pubblico. Ci sono l’amore per i fumetti, i videogiochi di cui si è occupato negli ultimi anni di digiuno cinematografico, ma anche, pur come fruitore del rock’n’roll respirato in gioventù, di grandi come Bach, Mahler, Tchaikovski, fino al cinema & musica di vari colleghi, da L’esorcista a Suspiria.
Minimalista nell’approccio su certi temi, Carpenter conosce i meccanismi per produrre fremiti e brividi: anche senza rinunciare a una certa semplicità dell’architettura, mostra come giungere all’obiettivo, giovandosi di un suono potente, nitido, coriaceo e di un entusiasmo decisamente fresco nel constatare come si possono “manovrare” lo show e il pubblico da un binario parallelo. Il cinema l’ha messo in secondo piano nei suoi pensieri, la fatica, gli equilibri di nuove produzioni non lo stuzzicano: invece quest’avventura da novella rockstar si apre a prospettive incognite, decisamente inebrianti, che gli restituiscono molte soddisfazioni oltre al piacere della scoperta.
Se dietro la tastiera non potrà sentirsi sicuro e protetto come su un set con la sua squadra di attori e tecnici, certo Carpenter mostra quanto il messaggio e il profilo di un autore possano dischiudersi su piani molteplici. Con una filmografia ferma al 2010, (The Ward, Il reparto), e un botteghino che oggi dà spazio a imitatori o specialisti in sequel (“Non c’è niente di male, qualche volta mi occupo delle sceneggiature, e comunque piovono addosso dei bei soldi”) meglio spostarsi verso altre possibilità: un titolo di Carpenter era Essi vivono…