Fino al 3 febbraio 2019 a Palazzo Reale di Milano è in corso una corposa mostra dedicata a Carlo Carrà, pittore che più di ogni altro ha attraversato gli eventi artistici del Novecento da protagonista. Curata da Maria Cristina Bandera con il nipote dell’artista, Luca Carrà, la mostra rappresenta la più ampia e importante rassegna antologica a lui dedicata mai realizzata fino a oggi, con 131 opere, documenti e filmati d’epoca ritrovati, che mostrano l’artista nel suo flusso di produzione continua, nella sua ricerca profonda di una propria identità e nei suoi aspetti più umani e sinceri
La grande mostra di Carlo Carrà in corso a Palazzo Reale di Milano è un’imperdibile occasione per riscoprire il lavoro di un artista singolare e unico che ha certamente un ruolo da protagonista nell’arte del secolo passato, attraverso un grande numero di opere e di documenti tra filmati vacanzieri, reliquie dallo studio, lettere e riviste, prima tra tutte Lacerba di Papini e Soffici a cui Carrà collaborava con passione. Colto e viaggiatore, scrittore, giornalista polemico e critico sagace, autore tra l’altro di un celebre saggio su Giotto, Carrà fu un artista intelligente e sensibile, attento ed entusiasta per le grandi novità che il suo tempo gli offriva, innamorato del mare e del silenzio.
Il percorso della mostra si dipana lineare, nella coincidenza non sempre perfetta tra cronologia e adesioni artistiche. Carrà comincia divisionista per poi passare al Futurismo, al cubismo, al primitivismo e alla metafisica fino al ritorno alla natura e al realismo, costellando il suo percorso con slanci di grandezza alternati a momenti di sospensione improvvisa, in cui si abbandona a visioni bucoliche non sempre convincenti.
Un esempio tra tutti è la vicinanza tra “Pino sul mare” del fatidico 1921, anno del suo ritorno alla natura, un capolavoro evocativo, potente e silente, e l’opera che lo segue nel percorso, un paesaggio campestre con una improbabile mucca in primo piano, dove persino la tecnica pare lasciata da parte come pesante fardello da cui riposarsi.
In un certo senso par di vedere una collettiva, un’antologia del Novecento in cui a manifesti paradigmatici e capolavori iconici si affiancano opere di artisti minori coinvolti nel flusso. E questo è a suo modo disturbante, per quella sua minaccia di inafferrabilità, di impossibilità di definizione, non sempre e non solo nell’accezione positiva che denota di norma il genio, bensì con un retrogusto di indecisione latente, tra grandi slanci appassionati e cambi di fronte perentori e definitivi, che sembrano escludere un lieto fine concluso. Chi è Carlo Carrà? Dove porta il suo percorso? Ha effettivamente trovato il vero Sè che tanto ha cercato?
Amatissimo dal grande storico dell’arte Roberto Longhi, che riteneva che a lui si dovesse il riavvio della pittura italiana, Carrà ha dunque attraversato tutte le vicende del rinnovamento artistico del suo tempo. Certo è che Longhi, poco più che ventenne, sosteneva, alla prima uscita dei futuristi, che tra Balla, Carrà, Russolo, Severini e Soffici il più dotato del gruppo fosse proprio Carrà (a parte sta l’immenso genio di Boccioni, il vero eroe della giovinezza del critico).
Non è scontato che le due figure, lo storico e il critico militante, sempre vadano a braccetto e non necessariamente la visione sul passato aiuta la comprensione del presente in divenire. Fatto sta che il Longhi, che poco stimava l’Ottocento italiano e notoriamente amava Giotto, non poteva che provare un immediato trasposto per Carrà che, nel suo passare con naturalezza da un movimento all’altro, ha alluso continuamente ai maestri del passato, a Giotto, appunto, a Masaccio, a Paolo Uccello, a Carpaccio e all’ultimo Tiziano, e a quella implicita metafisica che i grandi maestri portano con loro.
Ma proprio in questo sta la grandezza di questo artista, che non si spiega altrimenti né con l’invenzione né tantomeno con la qualità pittorica in senso stretto. La natura sospesa, i grandi silenzi, i cieli tersi, le porte lasciate aperte sull’inesplicabile, sono costanti del lavoro di Carrà, indipendentemente dall’adesione entusiastica e totale ai momenti artistici attraversati. Carrà è divisionista sensibile, futurista al galoppo, cubista solido, primitivista intenso, metafisico poetico.
Guarda a Cezanne, a Seurat, agli amici futuristi, al doganiere Rousseau, a Picasso, a De Chirico, e mentre guarda par che non veda altro. Ma ci mette sempre del suo, la sua anima rimane intatta e serena e si porta dietro un particolare tipo di silenzio, di immobilità nascosta nella turbolenza del suo percorso, sempre immerso nello Zeitgeist, nello Spirito del suo Tempo, con la sua nota sempre personale e riconoscibile.
Assieme al poetico sentore di sospensione metafisica che ci si porta fuori dalla mostra, forse la grandezza di Carlo Carrà sta proprio in questo, nell’aver saputo farsi interprete del suo tempo, testimone eccellente che non inventa ma avvalla, sostiene, sviluppa e rende visibile la storia dell’Arte.