È la vita dell’autore al centro de “Il Regno” più che la vicenda di Luca e Paolo e delle prime generazioni cristiane
In fondo, forse, la svolta che ha portato Emmanuel Carrère al tripudio – quella da abile costruttore di trame a innovativo mescidatore di generi – è consistita più che altro nel mettere la sua vita al centro. Se stesso come snodo di un crocevia di altre vite. La storia, certo; la cronaca, più spesso; ma, alla fine, è sempre da lui che si parte: Carrère e i suoi bisogni, le sue crisi, le sue frustrazioni, i sensi di colpa. Se in L’avversario e Limonov il risultato è stato decisamente una fortunata composizione avvincente e ben costruita, questa volta, con Il Regno, il suo ego così smisurato probabilmente ha ecceduto ed è diventato ingombrante.
Nelle intenzioni, si tratterebbe di un romanzo storico. Molto particolare, come storia: quella dei primi cristiani nel periodo che va dalla morte di Gesù Cristo alla stesura dei primi Vangeli. Quei decenni, quindi, in cui Paolo e Luca sono andati in giro per il Medio Oriente a predicare la venuta del Messia e la sua nuova filosofia di vita. Il cristianesimo come storia piuttosto strana e particolare a cui siamo abituati ma la cui stranezza appare lampante appena ci si ragiona un po’ sopra.
Nelle intenzioni, dicevamo, perché poi la lettura rivela ben altro: la crisi esistenziale che ha portato Carrère ad abbracciare la religione più diffusa in Occidente per un’ampia finestra della sua vita (quella in cui, tra le altre cose, mise insieme una biografia di Philip Dick, «uno scrittore religioso, un mistico selvaggio»). Riprendendo tutta una serie di quaderni scritti in quegli anni (quindici solo nel primo) e fitti di ragionamenti, eventi privati e pubblici, commenti ai Vangeli, fasi di autopersuasione, sedute psicoanalitiche, l’autore esplora i suoi trascorsi religiosi e cerca di spiegarsi il perché della fede, perché si crede e come si può prendere sul serio un insieme di storie tanto bizzarre.
La fede – come dichiara egli stesso – è stata un rifugio. L’ha vissuta in maniera dogmatica, andando in chiesa non tutte le domeniche, ma ogni giorno. È stato un periodo della sua vita. Decisivo, però: si è sposato con rito cattolico, ha fatto battezzare i suoi figli, ha dato a uno di loro un nome biblico (Jean Baptiste). Con questo libro ha dato sfogo alla necessità di raccontarlo. In fondo è un intellettuale che è stato dalle due parti della frontiera: quella dell’ateo illuminato e quella del fervente cattolico.
Per tre quarti, tuttavia, il libro è effettivamente qualcosa di simile a un romanzo storico – «Ho smesso di usare la parola romanzo da L’avversario» ricorda – sulle prime, primissime generazioni del cristianesimo. Qualcosa di simile, però, perché, in realtà, somiglia molto di più a un reportage, com’è, in fondo, nel suo stile. Un reportage sui primi predicatori e diffusori di questa nuova religione che nel mondo greco (quello ormai esteso e colonizzato dai romani) e latino, nei quali stava già penetrando l’ebraismo, presto prenderà piede. Non ha, il più noto autore francese degli ultimi tempi, voluto scrivere una vita di Gesù – ce ne sono già tantissime –, ma quello che viene dopo la sua morte: un piccolo gruppo di uomini ha creduto nella sua resurrezione e poi ha diffuso il cristianesimo in quel mondo allora più influente.
La vita di Carrère è sempre in mezzo. Si tratta di una vera e propria storia di formazione. Anche perché, non solo non è uno storico (pur essendo convinto di aver fatto un ottimo lavoro da storico), ma non crede affatto nell’oggettività. Per questo non riesce – dice – a fare a meno né della prima persona né a parlare di se stesso.
Certo, il rischio, che il testo sfiora spesso e in alcuni casi oltrepassa, è quello della masturbazione intellettuale e dell’esibizione perversa di questo onanismo mentale. D’altronde di masturbazione il libro parla spesso. Come quando, ad un certo punto, interrompe la narrazione storica per raccontare un particolare che, di primo acchito, sembra decisamente fuori luogo: il video pornografico di una bruna nell’atto di praticarsi piacere da sola.
Ma Carrère è, come sempre, un abilissimo affabulatore. Talmente bravo che, anche quando non sta facendo altro che guardarsi l’ombelico e raccontarcelo, riesce sempre a incantare e tenere incollati sulla pagina. Merito del suo stile, certamente: l’eleganza con cui riesce a costruire periodi equilibrati nell’alternanza di ipotassi e stile spezzato e fortemente paratattico fa da contraltare ai cambi repentini ma impercettibili di registro e di tono. Si tratta poi anche di un abile dosatore di elementi drammatici e narrativamente “classici” e di racconto della più banale quotidianità elementare ma strutturata comunque su un’ossatura narratologica efficace. Talmente efficace che molto spesso, se si smette di sospendere l’incredulità, si fatica a pensare che stia realmente parlando della sua vita o anche di una ricerca storica.
Probabilmente – lo afferma lo stesso Carrère – si tratta della chiusura di un ciclo: quello iniziato con L’avversario, proseguito con Limonov e approdato a Il Regno che ha visto pesantemente irrompere nella fiction la ricerca giornalistica, quella storica e, soprattutto, la stessa biografia dell’autore. Difficile dire se si tratti di una conclusione in climax ascendente. Probabilmente il risultato migliore è stato raggiunto nel testo di avvio di questa fase. Quello che ci pare di capire, comunque, è che ben lontana da lui è stata l’intenzione di costruire un “classico” romanzo storico con Luca e Paolo (prima che diventassero santi) come protagonisti.
Il Regno di Emmanuel Carrère, Adelphi, 2015, pp. 428, 22 €, e-book 10,99 €
Foto: Gwen