Le affacciate: la crisi ai tempi del social

In Letteratura

Nell’era dell’economia globale, perdere il lavoro finisce per diventare la perdita della propria identità. Nella storia di una donna che mantiene in vitro la sua immagine social, mentre nella realtà la rete di relazioni ed eventi di cui si occupava scompare, Caterina Perali dà voce a un infernale contrappasso contemporaneo: il contorto legame tra esposizione, necessità e depressione.

Quando ho iniziato a scrivere questo articolo, l’intenzione era aprirlo riportando i dati di uno studio, letto qualche tempo fa, che mostrava come esser stati disoccupati per un lungo periodo avesse effetti persistenti sul morale e sull’autostima di una persona pure nei mesi – e perfino negli anni – successivi alla ripresa del lavoro.
Mentre cercavo su internet, in realtà, mi sono imbattuto in una cospicua serie di articoli che trattano il tema interconnessione tra disoccupazione e depressione: da contributi clinici a veri e propri vademecum su come affrontarla.

Oltre alle ovvie motivazioni economiche, il nesso fra depressione e disoccupazione risiede nella centralità che ha il lavoro nella definizione della nostra identità: perderlo significa perdere la nostra identità.

Ed è proprio quello che accade alla protagonista di Le Affacciate, secondo romanzo di Caterina Perali.
Più di tante parole per mostrare il nesso fra depressione, disoccupazione e identità, l’immagine con cui si apre il libro è perfetta:

Da ore fisso le travi sul soffitto seguendo le venature del legno; dall’alto in basso, da sinistra a destra, incantata dall’imperfezione di quella materia lignea. […] Le travi sono giuntate da chiodi arrugginiti che sporgono. Ne ho contati una cinquantina stamattina, ma sono sicuramente di più. Dovrei ricontarli, magari alcuni sono stati inghiottiti dal legno, a volte succede”.

Nina, perduto il suo lavoro, non è nulla più che una contatrice di chiodi.

CAPORETTO

Nonostante Le affacciate sia più un racconto lungo che romanzo, sia per la lunghezza che proprio per il respiro – tutta l’azione si svolge in due ambienti nell’arco di un mercoledì -, Nina, la protagonista, ci colpisce per la sua complessità.
Perali, senza mai scadere del didascalico, riesce a descrivere una donna, fra la fine dei trent’anni e l’inizio dei quaranta, piena di idiosincrasie e di contraddizioni.

Nina non è una persona a cui è facile voler bene, o verso cui provare anche soltanto simpatia. Per lavoro organizza(va) eventi e la sua identificazione con la sua occupazione è quasi totale: Nina, nonostante sia ormai disoccupata e depressa, è costantemente occupata a dare un’immagine di sé sui social che sia alla moda, ironica e briosa. E soprattutto con ancora un lavoro.

Sembra quasi di assistere a una versione 2.0 de L’Avversario di Carrere.
Lei stessa è consapevole della finzione che sta mettendo in scena, sia per proteggersi dal trauma della disoccupazione e di tutto ciò che ne consegue a livello identitario, sia proprio a un livello superiore, a come la costruzione delle nostre identità social corrispondano sempre a un necessario imbellimento a uso e consumo dei nostri contatti. Disoccupazione o meno.

La bravura di Perali sta soprattutto lì dove riesce a inglobare la critica alla società delle apparenze all’interno della descrizione di Nina, della sua personalità e della sua deriva psico-emotiva – più che nella sua ripetizione, reiterata così tante volte da diventare quasi essa stessa uno slogan, condivisibile ma vuoto, al pari del peaceandlove pubblicato da Nina.
Nel ritratto a tutto tondo, fatto di fragilità e cattiveria, di richieste di aiuto e di allontanamenti, che è Nina, questa sua dipendenza da social va a inserirsi all’interno di un quadro psicologico più ampio.
Anziché limitarsi a essere una critica usurata tout-court, diviene un modo – come dice Nina stessa – per giudicare e accettare, ma senza passare per cogliona.

La solitudine di Nina è semplicemente sconvolgente. La vediamo costantemente al telefono con Anna, chattare di attentati terroristici, barconi affondati e ragazzi, in un costante procrastinare incontri.
Si vedono pochissime volte all’anno, nonostante vivano entrambe a Milano.

È nostra abitudine chattare per ore sulle Lezioni Americane di Calvino, sulla Croisette del Festival di Cannes o sul ritorno dell’eroina a Buccinasco.

E Anna è la sua migliore amica. Ovviamente non sa del licenziamento di Nina, che lo tiene nascosto a chiunque per pudore e vergogna.
L’unico momento in cui vediamo Nina cedere alla propria fragilità e mostrare veramente le proprie emozioni, è quando scoppia a piangere fra le braccia della colf filippina, e subito pensa a quanto dovrebbe pagarla in più per riequilibrare la cosa. Eppure ci riesce difficile essere mossi a compassione verso Nina. Principalmente perché per ogni gesto che potrebbe suscitare la nostra simpatia, ne fa altrettanti che ce l’alienano. Come quando chiama per prendere una cucciolata di cani e finisce per inveire contro la padrona, o si pensi al modo in cui forza la sua presenza a una cena di vecchie amiche per potersi risollevare il morale sentendo le storie di violenza e stupri nelle guerre jugoslave (ci arriviamo).
Ma è mia ipotesi che non riusciamo – o forse dovrei dire riesco – a provare una vera e propria simpatia verso Nina perché viene troppo facile riconoscersi in lei.
Le sue idiosincrasie e le sue mancanze sono troppo vicine alle nostre per riuscire ad accettarle. Come uno specchio che ci mostra con troppa lucidità quello che non vorremmo vedere.
Scrivere di Le affacciate è al contempo facilissimo e difficilissimo per lo stesso motivo: perché viene costantemente spontaneo rapportare la vita di Nina alla nostra e magari iniziare a raccontare accanto e sopra al periodo di disoccupazione di Nina quello che abbiamo vissuto noi, delle nostre solitudini e del nostro “fallimento umano, sociale, di una Caporetto esistenziale a tutto tondo“.
Quello che voglio dire è che Le affacciate colpisce nell’intimità e lo fa con una schiettezza e un’onestà che sono tanto necessarie quanto spiacevoli.

YUGOSLAVIA

Allora è con un certo conforto che da Nina passo a parlare di quelle che lei chiama le tre grazie, e dall’intimo si passa al ben più neutrale romanzo.

Possiamo dividere Le affacciate in due grosse parti.
La seconda inizia quando Nina quasi si auto-invita a una cena fra tre donne del suo palazzo che si ricontrano dopo un sacco di anni. Gran parte della storia è raccontata con la voce di Nina, che usa metafore piuttosto vicine all’indie italiano, alla Brunori Sas (esplicitamente citato nel libro stesso) come quando dice che ha l’impressione di “un boeing 767 che all’improvviso sparisce dentro la torre nord del World Trade Center del mio cervello“. Durante la cena, invece, il tono cambia. La narratrice – pur restando in teoria Nina – diviene Svetlana, anziana serba fuggita appena prima lo scoppio della guerra. Svetlana racconta la sua storia e quella della signora Adele e del suo amore devastante.

Quello che vorrei approfondire ora non è tanto il confronto fra Nina e Svetlana e la ricerca di un conforto nelle disgrazie altrui della donna, quanto più la differenza stilistica fra il racconto di Nina e quello di Svetlana e come Perali metta a confronto romanzo novecentesco e quello contemporaneo.


“Mia madre era alta uno e novanta e pesava novanta chili. Era così possente che il fratello che non ho mai conosciuto morì pochi giorni dopo la nascita, schiacciato dall’imponenza dei suoi seni

comincia così il racconto di Svetlana, con un’immagine che pare presa di peso dalla letteratura del secondo Novecento. Il tono è completamente differente rispetto a quello usato finora. Si abbandonano le metafore pop e il linguaggio colloquiale di Nina. La struttura che usa Svetlana, pur essendo un dialogo, è molto più letteraria e complessa. È come una scheggia letteraria impazzita che si è andata a conficcare nei lenti tentativi di sperimentazione del racconto contemporaneo che è stato fino a quel momento Le affacciate.

Da una parte vi è il racconto delle vite di Svetlana e di Adele e, dall’altra, vi è il commento iper-realista di Nina che manda messaggi alla sua amica. Come due mondi che si incontrano e soltanto difficilmente riescono a comunicare. D’altronde, possiamo vedere il comportamento di Nina come una specie di meta-letteratura: il suo approccio alla cena e alla disperazione di Svetlana/Adele è lo stesso che si ha quando si cerca conforto in un libro. Soltanto che Nina si trova davanti lo stesso problema che ha un lettore quando si trova davanti a un buon libro: “trovo ingiusto che le storie ingiuste non lo siano in modo assoluto. L’ingiustizia dev’essere totalizzante per essere consolatoria“. Che è anche il punto di contatto e convergenza non solo fra Svetlana e Nina, ma anche fra i diversi modi di raccontare le tre donne.

Il finale, a mani basse, la parte migliore de Le affacciate è al contempo una scelta coraggiosissima dal punto di vista narrativo e dell’ormai logoro arco di crescita del personaggio, ma soprattutto una straordinaria apertura alla complessità e all’accettazione dell’altro e di noi stessi. Perché, pur non diminuendo minimamente la profonda critica alla società contemporanea, Nina (e quindi Perali) riconosce come “ognuno cerca il suo modo per sopravvivere. Nel dominio dell’apparenza, ognuno ha il diritto di giocare come gli pare“.

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