Poeta del liceo. Poeta del proibito e delle parolacce, allora. Oggi tante cose insieme. Così lontano così vicino nel suo cantare amore, passione e perdita come prima non s’era mai visto e dando traccia al dopo, ma anche conformista e mediocre negli epigrammi e nelle invettive contro i suoi avversari
Gaio Valerio Catullo è stato, per me e per altri, poeta dell’adolescenza. Poeta di liceo. Cercavamo allora in lui l’immediatezza e la vita che scalpitava e bruciava dentro i versi, contro il morto italiano della nostra poesia aulica. La traduzione quondam più popolare era quella di Salvatore Quasimodo, che non ho più riletto. L’immediatezza era illusione, perché Catullo, per quanto pratichi una poesia spesso d’occasione, è poeta complesso («Più difficile di Lucrezio Virgilio Orazio, poeti di un mondo più vasto ma più compatto» lo definirà a ragione Alfonso Traina). Cercavamo inoltre, questo trovandolo, per il gusto del proibito di tutte le adolescenze che allora era tanto più difficile di oggi da soddisfare, il turpiloquio.
Non che fosse lì, a portata di mano, perché le antologie scolastiche espungevano quei materiali ripiegando sul più convenzionale “passero della mia ragazza” e sulla sua morte: temi un po’ esangui e manierati, da pittura vascolare, che nelle antologie di allora ci velavano la drammaticità e lo strazio di quell’amore senza sottolinearne la straordinarietà per il mondo antico, le modalità illecite, le molte rotture e i molteplici tradimenti di Lesbia. Più facile, per la scuola di allora, tenere tutto in famiglia, ricordando l’omaggio al fratello morto nella Troade che compare in più di un carme e rimandando alle affinità del carme 101 con il sonetto del Foscolo In morte del fratello Giovanni (in tutti e due, ci veniva fatto notare, c’era la stessa espressione: il “cenere muto”).
Così, per la ricerca delle scabrosità, si andava a caccia di un testo integrale, bussando alla biblioteca universitaria. E si trovava, altroché se si trovava. Il carme 16, per esempio.
Io ve lo metterò in culo e in bocca,
Furio culattone, Aurelio finocchio,
che tacciate me di impudico
per via di versi un po’ arditi.
Ma il poeta consacrato dev’essere sì
casto, ma nella persona, non per forza nei versi:
che hanno spirito e grazia
se sono effeminati e lascivi,
se possono ridestare le voglie
non dico dei ragazzi, ma degli uomini
pelosi, che non muovono più le membra torpide.
Per aver letto di milioni di baci,
pensate che io non sia un vero uomo?
Io ve lo metterò in culo e in bocca.
«Pedicabo ego vos et irrumabo». Felici della scoperta, non si capiva che nel carme c’erano, assieme, un’aggressività verbale caricata ad arte (poesie occasionali fortemente denigratorie, scritte in una cerchia di giovani dorati com’era quella dei neoteroi o poetae novi che dir si voglia, che spesso s’insultavano – o insultavano altri – anche per gioco: Furio e Aurelio sono gli stessi che, nel carme 11, accompagnerebbero Catullo in capo al mondo). E una dichiarazione di poetica: il poeta dev’essere casto (l’io narrato), non necessariamente i suoi versi (l’io narrante).
Per i giovani della cerchia di Catullo (la sua fu anche poesia di conventicola, di consorteria, difficile da decifrare negli epigrammi e nei “truces iambi”, quanto alle circostanze che riferisce e spesso anche per quanto riguarda i destinatari o gli effigiati, come nel 1400 lo sarà la poesia di Villon) valevano la levitas e la iocunditas, contro la gravitas della poesia enniana e della tradizione epico-annalistica.
Una poesia programmaticamente individualista, quotidiana (nella lingua e nel metro Catullo fece prodigi, inventando uno stile medio che attingesse sia al colloquiale plautino, sia all’arcaismo di Ennio, sia alla raffinatezza erudita callimachea e alessandrina: tutti generi, prima di lui, rigorosamente separati), “lepida” e piena di grazia (oggi si direbbe cool), occasionale, breve e colta.
E infatti Catullo, non soltanto per understatement, chiamava i suoi carmi “nugae”, “ineptiae”. Sciocchezze di cui era però fiero, al punto di insultare e aggredire.
La caccia al turpe continuava e ci faceva imbattere nel carme 57, violentemente anticesariano e tale da suscitare il risentimento del conquistatore delle Gallie (Svetonio giura che in seguito Cesare e Catullo si riconciliarono):
Una bella lega tra due finocchi,
Cesare e quel culattone di Mamurra. Per forza:
tutti e due macchiati da macchie profonde,
che non si lavano, l’uno a Roma,
l’altro a Formia: viziosi
entrambi come due gemelli,
letteratini sullo stesso letto,
l’uno come l’altro adulteri insaziabili,
e insieme rivali per le ragazze.
Una bella lega tra due finocchi.
L’insulto e la politica. Catullo come anticesariano (un professore di storia delle religioni che fu intellettuale di spicco del Pci, Ambrogio Donini, molto stalinista e molto accecato dall’ideologia, scrisse che «egli seppe colpire la corruzione e l’avidità delle classi dominanti e i saccheggiatori delle province». Nulla di più falso: Catullo apparteneva al patriziato di provincia (proveniva da una facoltosa famiglia veronese che ospitò Cesare, ebbe villa a Sirmione e podere a Tivoli, possedeva una nave propria che cantò nel carme 4), era anticesariano quanto anticiceroniano, in genere disgustato dalla politica (la sua breve vita si svolse nel pieno della crisi repubblicana, tra la dittatura di Silla, la rivolta di Spartaco, la congiura di Catilina e il protogolpismo del triumvirato), attaccava i saccheggiatori delle province perché non lo avevano ammesso a godersi la sua parte del bottino (si vedano i carmi 10 e 28). E i suoi risentimenti erano, si direbbe oggi, “di gusto”.
Chi era insomma Catullo? Sul suo conto sappiamo pochissimo. Scartando la pur necessaria provocazione di Luca Canali, che ci ammonisce paradossalmente a non buttare tutto in biografia («Ma Catullo è veramente esistito?») si sa – ce lo dice tre secoli più tardi san Gerolamo – che scomparve a trent’anni, ignote le ragioni della morte. Probabilmente verso il 54, se si accettano i riscontri esterni ai suoi versi (gli ultimi eventi storici citati nei carmi sono la spedizione di Cesare in Britannia e il secondo consolato di Pompeo, entrambi del 55 a. C.). Che visse in prevalenza a Roma e compì una spedizione in Bitinia nel 56-57 al seguito del propretore Gaio Memmio dedicatario del poema di Lucrezio (Roma è piccola!). Che fu amico di personaggi la cui fama ci è stata tramandata: Cornelio Nepote al quale dedicò il suo “libellus” (carme 1), Quinto Ortensio Ortalo al quale inviò una traduzione – fedele e personalissima al tempo stesso – della Chioma di Berenice di Callimaco (carmi 65 e 66). E che conosceva abbastanza Cicerone da inviargli un carme-biglietto (il 49) dall’apparenza cortese e dalla sostanza avvelenata:
Eloquentissimo tra i nipoti di Romolo
che furono, sono e saranno
negli anni a venire, Marco Tullio,
ti ringrazia molto Catullo,
il peggiore poeta di tutti –
tanto il peggiore poeta di tutti
quanto tu sei il migliore avvocato di tutti.
Che cosa aveva da rimproverare Catullo a Cicerone? Forse di non apprezzare la poesia neoterica e di averla fatta oggetto dei suoi strali. Forse di avere demolito la reputazione di Clodia Pulchra, vedova del console Q. Cecilio Metello Celere, nell’orazione Pro Caelio detta in difesa di uno degli amanti della donna, accusato da lei di veneficio, che Cicerone aveva fatto assolvere.
Cicerone la descrive come una vedova allegra: «Ammettiamo che una donna senza marito abbia aperto la sua casa alle voglie di ognuno e si sia messa a condurre una vita da mondana, che si sia data a frequentare i bagordi di uomini assolutamente estranei a lei, in città, in villa, in mezzo al gran mondo che frequenta una località come Baia; ammettiamo infine che una donna si faccia giudicare per quella che è non solo per come si muove e si abbiglia, per il genere di persone di cui si circonda, per l’ardore che mette negli sguardi e per la licenziosità dei discorsi, ma anche per quel suo abbracciare e baciare la gente, per il contegno che tiene sulle spiagge, per le gite in barca e per i banchetti che frequenta…».
Clodia era, con quasi certezza, la Lesbia di Catullo, protagonista di uno dei più intensi amori letterari di tutti i tempi, ispiratrice di versi al calor bianco per tensione lirica e acume psicologico:
Viviamo, Lesbia mia, ed amiamoci,
e i brontolii dei vecchi austeri
valutiamoli, tutti insieme, due soldi.
Il sole può tramontare e tornare,
ma noi, quand’è tramontata la nostra
breve luce, dobbiamo dormire una sola notte,
perpetua.
Dammi mille baci, e poi cento,
poi altri mille e altri cento,
poi ancora altri mille e altri cento.
Quando ne avremo fatti molte migliaia,
li confonderemo per non sapere più il loro numero,
che nessuno possa farci il malocchio, sapendo
un numero così enorme di baci.
In questo carpe diem che non ha niente del rassegnato autunno oraziano, Catullo fornisce un modello fondativo di tenuta bimillenaria all’amore-passione. I suoi baci, lo ricorda Guido Paduano, sono già quelli di Proust («Ogni bacio chiama un altro bacio. Ah! Nei primi tempi di un amore, i baci nascono con tanta naturalezza! Spuntano così vicini gli uni agli altri, e a contare i baci che ci si è dati in un’ora si faticherebbe come a contare i fiori in un campo nel mese di maggio»).
Lesbia, il nome che metteva l’identità di Clodia al riparo di un riserbo assai sottile (era abitudine dei neoteroi portare in piazza, almeno la piazza del verso, amori anche occasionali, e Catullo in qualche suo carme rimprovera amici che si tengono tutto per sé) era stato scelto ispirandosi a Saffo, che Catullo rifà nel carme 51, dedicato al primo incontro con la donna:
Mi sembra uguale ad un dio,
mi sembra, se è lecito, superiore agli dei,
l’uomo che ti siede di fronte,
sempre ti guarda e sente
il tuo riso dolcissimo; questo a me infelice
toglie tutti i sensi – appena ti vedo,
Lesbia, non mi riesce,
più di parlare, la lingua
si fa torpida, un fuoco sottile
mi corre sotto la pelle,
le orecchie rimbombano, gli occhi
sono velati dal buio…
“Si fas est”, se è lecito. Forma prudenziale di reverenza religiosa, ma anche locuzione rivelatrice dell’animus con cui Catullo viveva una passione. Come un amore eterno: sacro come un foedus, un patto, e affidato alla Fides, la divinità che vigila sul rispetto della parola data. Nella passione, come nell’invettiva, Catullo rivela un fondo di moralismo conservatore, una voglia provinciale di matrimonio e di famiglia (lo dimostrano anche i suoi bellissimi epitalami). Qui però, nel timore di offendere gli dei, non c’è soltanto la vecchia sana moralità della città-stato; c’è anche, in parte, una recita mistificante, un autoinganno. Lo stesso teatro dell’io che irrompe, autoterapeutico e autoingannatorio al tempo stesso, nel notevole carme 9, in cui Catullo trasferisce a Lesbia il suo rimpianto, il suo lutto:
Infelice Catullo, smettila d’impazzire,
e quello che vedi perduto, convinciti che è perduto.
Un tempo ti rifulsero soli splendidi
quando andavi dove lei ti portava, la donna
amata da me quanto nessuna sarà mai amata.
Là si facevano tutti quei giochi, che tu volevi
e lei non diceva di no. Veramente
un tempo ti rifulsero soli splendidi.
Ora lei dice di no, e tu devi fare altrettanto
anche se sei disperato, non devi inseguirla se fugge,
non devi
vivere infelice, ma sopportare con fermezza e tenere duro.
Addio, ragazza. Ormai Catullo è capace
di tenere duro, non ti cercherà, non ti pregherà se non vuoi.
Ma a te dispiacerà che lui non ti cerchi.
Sciagurata, che vita ti aspetta?
Chi ti frequenterà? A chi sembrerai bella?
Chi amerai e di chi diranno che sei?
Chi bacerai? A chi morderai le labbra?
Ma tu Catullo, sii fermo e tieni duro.
Le liti, gli abbandoni, le riconciliazioni. In quest’altalena amorosa, il Catullo respinto e tradito si protegge dividendosi in due: l’amante che non può non amare, l’innamorato che non può più volere bene (“bene velle”). Fino al lampo abbagliante del carme 85:
Odio ed amo. Mi chiederai come faccio.
Non lo so, ma lo sento succedere, e mi tormento.
E fino alle invettive livide dell’amore finito, della gelosia che ulula nel carme 58:
Celio, la mia Lesbia,
quella Lesbia che Catullo ha amato
più di se stesso e di tutti i suoi,
adesso nei trivi e negli angiporti
scappella i nipoti del magnanimo Remo.
Un amore in tutto il suo arco, dall’alba al tramonto, come la letteratura antica non aveva mai visto. Così umano, così vero nel verso che non ci importa infine quanto fosse vero nella realtà. E quanto, nella realtà, Clodia/ Lesbia fosse meno turpe e scellerata del ritratto offerto da Catullo e Cicerone (le fonti su di lei sono rare, ma alcune riferiscono che questi “incontri con uomini” erano riunioni politiche dei populares, nelle cui fila militava il fratello). E quanto Catullo fosse meno ossessionato da Lesbia di quel che dichiara, se nei suoi carmi trovano posto il sesso ancillare (la dolce Ipsitilla del carme 32, che deve restare in casa per preparare al poeta “nove scopate di fila”), quello mercenario (la veronese Aufillena del carme 110, che non dà mai e prende spesso) e quello omosessuale (i carmi per il giovinetto Giovenzio).
L’omosessualità di Catullo e la sua ostentazione di virilità: tutto nella norma. Anche se l’omosessualità romana delle classi alte non è più la pederastia rituale greca e i giovinetti sono ormai merce in vendita e non più allievi di un maestro (per comprendere il fenomeno c’è un bel libro di Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Rizzoli, 1995), la pratica è tuttavia socialmente accettata e la riprovazione colpisce non chi va con uomini, ma chi svolge un ruolo sessualmente passivo. Assolutamente conformista, quindi, il Catullo degli epigrammi e delle invettive (mediocre poeta, nel genere: e non tanto per la scabrosità degli enunciati, quanto per la grevità impacciata o furente che non riesce mai a scaricarsi in battuta di spirito, in witz fulminante): che scredita avversari e rivali dando loro del prendinculo, del pompinaro, del’incestuoso, del miserabile (la povertà è uno dei suoi bersagli) e del ladro (ladro di indumenti alle terme, borseggiatore, ladro di offerte votive).
Meno conformista, e anzi anima divisa in due e incline a identificarsi con la sventura femminile, è il meno popolare Catullo dei carmina docta, del piccolo epos: si tratti di epitalami come lo stupendo carme 64 che reinventa il mito di Peleo e Teti e, celebrando le loro nozze, dà voce ai lamenti di Arianna abbandonata da Teseo; dell’ambiguità sessuale e della sterilità di Attis, che si evira per divenire seguace di Cibele (carme 63); o dell’altrettanto mirabile carme 68b dove, con un effetto di montaggio stupefacente, il ricordo del primo incontro con Lesbia si dissolve nel destino di sventura di Laodamia che, celebrato l’amore anzitempo scordando le offerte agli dei, vede per punizione il fresco sposo Protesilao diventare il primo caduto dei greci nello sbarco a Troia:
Come ai naviganti sbattuti in una nera tempesta
viene in soccorso un vento leggero e propizio,
implorando e pregando Castore e Polluce,
questo è stato per me l’aiuto di Allio,
che mi aprì un largo varco nel campo chiuso,
e diede a me e alla mia donna una casa
in cui godere del nostro reciproco amore.
Là entrò la mia splendida dea col piede leggero,
e fermò sulla soglia logora il suo calzare
fulgido, poggiando sulla suola sonora, come una volta
Laodamia arrivò ardente d’amore
alla casa di Protesilao…
Ecco inventati, in un colpo solo, l’epifania (in questa versione del mito che fa del vissuto leggenda) e l’amor cortese, se amor cortese era il divinizzare (l’angelicare) la donna amata. Catullo, così lontano, così vicino.
Bella e asciutta, senza poeticismi né inutili durezze, la versione del 1997 per Einaudi delle Poesie di Guido Paduano. Strepitoso l’apparato di note di Alessandro Grilli, che dà conto con scrupolo e senza pedanterie dello stile catulliano, chiarisce i molteplici problemi d’interpretazione di carmi arrivati spesso mutili o corrotti e spazia negli esercizi di comparatistica da Omero a Lars von Trier. Testo latino a fronte.
Post scriptum. Prima di scoprire l’edizione Einaudi, per anni mi sono affidato a quella Rizzoli (1982). Che ha una pregevole traduzione di Enzo Mandruzzato: più rotonda e “poetica”di quella di Paduano ma non infedele. Per dare una misura dei tre stili che confluiscono in Catullo (il sermo cotidianus, l’epigramma-invettiva, l’erudizione alessandrina), esemplare è il carme 11, l’addio a
Lesbia, che Mandruzzato rende così:
Furio, Aurelio, compagni di Catullo
quando andrà in fondo all’India più remota
dove le onde dell’aurora battono
sorde le rive,
tra gl’Ircani e i voluttuosi Arabi,
i Sagi e i Parti armati di saette,
al Nilo delle sette fauci dove
colora il mare,
o quando varcherà le erte Alpi
dietro i ricordi di Cesare il grande,
al Reno della Gallia, e tra i selvaggi,
Britanni più lontani,
pronti, voi e io, a provocare
ogni destino che gli Dei vorranno –
farete alla mia donna questo spiccio
brutto discorso:
io la saluto coi suoi mille amanti,
che abbraccia tutti insieme ma nessuno
ama davvero e a tutti uno per volta
rompe la schiena,
e non si volti indietro più al mio amore
caduto per sua colpa come al margine
del prato cade un fiore che l’aratro
tocca e va oltre.
Notevole e accurata l’introduzione di Alfonso Traina, che istituisce un rapporto tra Lucrezio e Catullo (le due risposte alla crisi della repubblica: una filosofica, l’altra individuale), indaga sul lessico catulliano e dà la misura esatta della sua bravura tecnica (esemplare lo smontaggio del carme 5). Nell’introduzione di Traina mi ha colpito anche il cenno a Baudelaire: che non ama Catullo, lo definisce «poeta brutale ed epidermico» ma gli carpisce il carme 85: «Je te hais autant que je t’aime!».
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Immagine di copertina di Roman Kraft