Cosa si può vedere ad Arts & Foods, la mostra di Expo fuori da Expo? Un elenco di tante cose, una moderna Grande Bouffe in cui emerge la voracità del curatore
Quando si dice Melius abundare quam deficere: oltre a essere una delle tante locuzioni latine utilizzate nel linguaggio corrente potrebbe essere la filosofia della bulimica mostra Arts & Foods. Rituali dal 1851, unico padiglione di Expo realizzato in città.
Meglio abbondare che scarseggiare è apparentemente un proposito infallibile e infatti la manifestazione regge l’urto con la tradizione proprio per l’enormità di opere presenti in mostra. Certo, misurarsi con le grandi esposizioni universali del passato, a cominciare da quel lontanissimo 1851 londinese dove Joseph Paxton e Owen Jones tagliarono i nastri della modernità, non è impresa da poco.
Ma i vuoti con la storia si colmano soprattutto con le idee, ecco spuntare quindi il curatore del progetto: Germano Celant, e chi se non lui, perfetto insaziabile regista di esposizioni dai cachet paperoniani che negli ultimi dieci anni ha fatto incetta di ogni tipo di mostra.
A partire dalla grande intuizione dell’Arte Povera Celant si è sempre destreggiato nel trasformare piccole carabattole da galleria in grandi kermesse internazionali: d’altronde uno che è riuscito a spalmare l’opera di Piero Manzoni – meteora della storia dell’arte, morto appena trentenne – in un pantagruelico catalogo generale Skira con 816 pagine e più di 1200 opere pubblicate, il tutto battezzato dagli eredi dell’artista, risulta in questo senso una garanzia insuperabile.
Celant è quindi maestro d’abbondanza e Arts & Foods il suo capolavoro: la rassegna si snoda su tre livelli tra l’interno e l’esterno del Palazzo della Triennale di Milano, raccontando attraverso l’arte i molteplici aspetti del cibo e della nutrizione dall’Ottocento ad oggi.
Appena si entra risulta evidente che la mostra parlerà svariati linguaggi: dalla pittura alla letteratura, passando per la musica, l’architettura, il cinema, la scultura, il video, la fotografia, la pubblicità, nessuna forma d’espressione esclusa. Separati tra loro in ordine cronologico, si articolano tre blocchi espositivi che presentano ogni possibile e improbabile prodotto artistico che ha a che fare con il tema culinario, l’inizio si connota per una certa scientificità espositiva: la carrozza, la bicicletta, il picnic per scampagnate estive nella Francia di fine Ottocento, le teiere di Peter Behrens per l’AEG, la creazione di ambienti come la cucina primitiva, la casa d’urgenza di Jean Prouvé e quella mobile di Jean Maneval; il bellissimo dipinto di Angelo Morbelli intitolato Asfissia che tiene alto l’orgoglio pittorico a fronte di colleghi ben più illustri ma con opere minori.
Piano piano la mostra rivela il suo carattere d’impronta statunitense, così i dialoghi tra il Meuble Cuisine Atelier lecorbusieriano, le stanze cubiste e La Cornuta di Gio Ponti per la Pavoni sono ormai un ricordo lontano. Si gira l’angolo e arriva Tom Sach con Nutsy’s McDonald’s, le pietanze onnipresenti di Claes Oldenburg si prendono la scena, la Pop Art capitanata da Warhol fa la parte del leone, Tom Wesselmann è piacevolissimo e qua e là ci si accorge di richiami poetici con Ossessione di Luchino Visconti e le straordinarie istantanee di Ugo Mulas appena dietro di noi; poi ancora qualche pezzo di Arman, i dischi dei Beatles, gli ammiccamenti di Joe Colombo, Verner Panton e la sporcizia di Daniel Spoerri mentre John Cage ci guarda in bianco e nero dal bosco dei mushrooms con il plauso del fedele amico Bob Rauschenberg. Se si guarda dalla finestra si vede la fontana di De Chirico restaurata con di fianco il ridente Daddies Tomato Ketchup infiatable di Paul McCarthy.
Nell’ultima parte della festa ci attendono le grandi star strettamente contemporanee, l’inizio non sembra facile con Mozzarella in carrozza di Gino De Dominicis che fa subito rimpiangere i maestri del passato, l’intelligenza di Penone e Kounellis però, riequilibrano la partita; il pescione biblico di Frank O. Gehry e la Bread House di Fischer soddisfano i soliti visitatori ma una certa caratura di pensiero arriva con Woman with Shopping di Ron Mueck, la fotografia di Kevin Carter e When The World Ends dei fratelli Chapman.
L’allestimento di Italo Rota prevede anche percorsi per i bambini; il congegno espositivo abbraccia più di 2000 pezzi, la mostra è tanto generosa di opere quanto avara di cartellini esplicativi, soprattutto nella prima parte, da tanti considerata la meglio realizzata.
Prima di uscire si getta un ultimo sguardo per salutare l’ormai dimenticato Antonio Stoppani, immortalato per l’ultima volta ne Il Bel Paese di Cattelan, il tappetone che riproduce il logo della Galbani con ancora il ritratto dell’abate-geologo.
Arts & Foods, Triennale, fino all’1 novembre 2015
Foto: Tom Wesselmann, Still life #8, 1962