Kenneth Branagh rielabora la favola perrault-disneyana valorizzando il coraggio interiore e il diritto di tutti a realizzarsi nella vita. Con o senza fate
La Cenerentola di Kenneth Branagh forse non sazierà i nostalgici della pellicola disneyana del 1950, vivacizzata da uno stile musicale sostenuto dai gorgheggi e dagli squittii di uccellini e topolini, ma attinge a piene mani alle atmosfere fiabesche di Perrault, per restituirci personaggi psicologicamente profondi, immersi in relazioni umane e a tratti politiche.
Qui (Cindar)Ella (Lily James) è una solare ragazza di campagna che vive con il padre mercante (Ben Chaplin), spesso in viaggio, e la madre (Haily Hathwell), in un’atmosfera iniziale di bucolica tranquillità. Quando quest’ultima muore, lui si risposa con Lady Tremaine (una bravissima Cate Blanchett), ma poi a sua volta perde la vita, e Cenerentola si ritrova sola e orfana alla mercè delle sorellastre capricciose, abituate a uno stile di vita super kitsch e al sadismo della matrigna, che vedendo in lei il tragico ricordo dell’ennesimo amore perduto, defunto come i suoi passati mariti, cerca ossessivamente di distruggerla, contaminarla, privarla della sua genuina bellezza.
Solo le ultime parole della madre, che la sprona a mantenersi “gentile e coraggiosa” le consentono di sopportare gli insulti e i rimproveri, costretta alla schiavitù di interminabili faccende familiari, però di contro appagata da più umili ma essenziali soddisfazioni. Perché è l’ “essere se stessi” che gioca un ruolo fondamentale nell’interpretazione di Branagh.
Non a caso il colpo di fulmine amoroso che scocca con il principe (Richard Madden) avviene in un rendez vous fortuito durante una cavalcata fuggitiva nel bosco, e prescinde da qualsiasi condizione sociale o regale: lui la colpisce col suo charme, lei lo incanta con la profonda spontaneità, lontanissima dal cinismo calcolatore della matrigna, disposta a tutto pur di sposare le figlie e assicurarsi un titolo nobiliare.
Cenerentola è un inno al sogno americano nutrito dalla memoria dei propri cari, a uno sguardo scevro da pregiudizi, alla fiducia nei propri talenti e valori, che se portati avanti con tenacia giungono a esaudire i più intimi desideri. Un messaggio rivolto a tutti e tutte. La scarpetta potrà essere indossata da “tutte le donne del regno”, com’è aperto a tutti l’invito al ballo di corte: perché ciascuno (e ciascuna) è interprete attivo del proprio destino.
Così il sopruso risiede qui nella privazione del diritto legittimo all’autorealizzazione, esercitata su Cenerentola dalla matrigna che decide di rinchiuderla, convinta che impedirle la libertà le garantisca un futuro migliore. E che potere e titoli possano lenire le sofferenze vissute.
L’ideale utopico del “vivremo tutti felici e contenti”, tipico dei personaggi fiabeschi, rischia qui di illudere generazioni intere offrendo loro immaginari irrealizzabili. Ma è un pericolo comune a tutti i film del genere. A suo modo però questa Cenerentola è una ragazza capace di inseguire i suoi sogni, Fata Madrina permettendo, e di seguire ispirazioni di intelligente fermezza interiore, in cui “coraggio e gentilezza” non sono ancora estinte.
Cenerentola, di Kenneth Branagh, con Lily James, Richard Maden, Cate Blanchett