Da Caporetto alla Resistenza antifascista, dalle bombe in Piazza della Loggia alla fuga di oggi dal Sud impoverito, Davide Ferrario racconta in un documentario molto anomalo, e dando spazio a voci note e da scoprire, l’ultimo secolo della nostra storia: in cui i momenti più bui e vergognosi hanno lasciato in qualche modo sempre il posto a rinascite sociali, culturali ed economiche insperate e impensabili
“Non bisogna avere paura del futuro, Il futuro non è mai arrivato come uno se lo immaginava”. È la frase che riassume forse più semplicemente, e al tempo stesso originalmente, Cento anni, il nuovo documentario del 61enne regista cremonese Davide Ferrario che completa il suo itinerario recente sulla storia italiana iniziato nel 2011 con Piazza Garibaldi, che rievocava l’epopea risorgimentale dei Mille, e proseguito tre anni dopo con La zuppa del demonio, racconto sociale, tra luci e ombre, grandiosità e disastri, della rivoluzione industriale e tecnologica nel nostro paese lungo il ‘900.
«L’idea di Cento anni è venuta a Giorgio Mastrorocco, con cui ho realizzato gli altri due capitoli della trilogia, film che per mancanza di termini migliori definiremo “documentari”, ma certamente hanno poco del documentario tradizionale. Tre anni fa, pensando all’anniversario di Caporetto (24 ottobre 1917) mi disse: “ma perché noi italiani abbiamo sempre bisogno di una catastrofe per mettere in moto le energie migliori della nazione?”. È vero: perché per vincere la Grande Guerra abbiamo dovuto subire una vergognosa disfatta? Perché, prima di riscattarci con la Resistenza, abbiamo inventato il fascismo? Lo schema caduta-risurrezione è in effetti una costante del nostro Novecento, in tutti i campi: militare, civile, economico, perfino sportivo».
Il film si focalizza su alcune tappe salienti di questa ripetuta modalità storica, partendo dagli austriaci trionfanti e dai soldati di Cadorna in fuga, bollati negli anni a venire, anche a guerra finita e poi vinta, come inetti e dai profughi, orfani, prigionieri che quella terribile battaglia generò. Le tappe successive hanno nomi e location celebri: la Risiera di San Sabba, emblema del contributo nazionale alla persecuzione nazi-fascista degli ebrei e la diga del Vajont, luogo simbolo anche di tante successive catastrofi generate dalla nostra incapacità predatoria di tutelare il territorio e fronteggiare gli aventi naturali. La storia patria segue poi anche vicende familiari, come quella del chitarrista Massimo Zamboni (autore, insieme a Fabio Barovero, delle belle musiche del film), che ebbe un nonno fascista ucciso da due partigiani, il quali si ammazzarono tra loro, parecchi anni dopo la fine della guerra. E dalla strage di Piazza della Loggia si passa ad altre nostre “Caporetto” successive, la più recente delle quali è oggi lo spopolamento del Sud, che il poeta e attivista Franco Arminio descrive in un viaggio nelle campagne di Irpinia e Basilicata.
Si comincia con Mario Brunello che suona divinamente il suo violoncello davanti, all’Ara Pacis di Medea (Gorizia), e intanto scorre un montaggio di immagini di cimiteri e sacrari della Prima Guerra Mondiale, mentre subito dopo cinque attori, tra cui Marco Paolini, si dividono storie di fame e violenze in quel tragico 1917 e nei difficili anni successivi, mentre Manlio Milani e altri parenti delle vittime della strage neo-fascista del 1974 tornano in quella Brescia martoriata eppure fiera proprio della sua capacità di reagire.
«Confesso che mi ero accostato alle riprese con un pensiero inconsapevole: il gusto di narrare la decadenza, la sconfitta, il male del Paese», aggiunge Ferrario che ha incrociato Le strade di Levi, ripercorrendone il viaggio di ritorno in Italia dal campo di concentramento di Auschwitz e Le strade di Genova, cronaca a pochi mesi di distanza del tragico G8 conclusosi con la morte di Carlo Giuliani, «Mostrarlo e compiacersene è una tentazione classica dell’intellettuale, forse del carattere italiano tout court. Ma lavorando sul campo la prospettiva si è ribaltata. Il nostro popolo ha un’incredibile capacità di resistenza, un suo modo peculiare di elaborare il disastro, una resilienza biologica e culturale che alla fine prende il sopravvento. Il film prova a raccontarla senza happy end, perché le sconfitte implicano comunque un prezzo da pagare: come racconta Prezzolini, quando si diffuse la notizia della resa degli austriaci, dalle trincee non si levò il grido “Vittoria!”, bensì “Pace!”».
Il film di Ferrario si apre, e cerca a più riprese di rispondere – “citando” le due Guerre Mondiali e altri sanguinosi eventi che ci hanno coinvolti – alla domanda: “A cosa servono i morti?”. E si chiude, sulle immagini del Bel Paese contemporaneo ancora una volta abbandonato dai suoi abitanti, con l’ancor più inquietante quesito: “A che servono i vivi?”. Ma siccome il “documentario” «non può essere solo il suo contenuto, ma deve essere anche una riflessione sul cinema e sui modi della messa in scena» (sono ancora parole sue), cambia passo e stile, e anche contributi visivi, a seconda della “Caporetto” che sta raccontando. Un ulteriore aspetto interessante per un’operazione filmica riuscita e istruttiva.