Cento, mille, una Penthy

In Teatro

A Teatro I “Penthy sur la bande” è una discesa nella follia e nella violenza, nel marcio più profondo dell’umano, amplificato (forse troppo) dalla tecnologia

Che la guerra e l’amore – soprattutto declinato della forma del possesso – e la guerra siano strette parenti non è una novità. Richiedono – o meglio, richiedevano finché a raccontarle erano gli echi del mito – la stessa visceralità, la stessa crudeltà, la stessa consapevole follia. Il travalicamento di un confine.

Così la “bande” sulla quale si muove Penthy, che della Pentesilea di Kleist porta l’eco (seguito, riscrittura, visione? Forse tutto, forse nulla di tutto questo) si declina e si sprecisa in una grande varietà di identificazioni. La striscia di una trincea (viene in mente Gaza, per semplificazione), la cesura fra un presente senza tempo né spazio e un passato che ha l’aura antica tanto del mito greco, di un Achille fedifrago, tanto di un testo ottocentesco che si voleva irrappresentabile, o ancora il confine ormai irrimediabilmente varcato della follia.

Perché non c’è né si cerca alcuna lucidità, nelle parole di Penthy che ha ucciso Hecky. Nelle sue parole spezzate, che si avvitano su se stesse, si ripetono e si contorcono, come gli arti di una marionetta tirata solo dal filo del proprio istinto, c’è soltanto la certezza del rifiuto di ogni pentimento. La cultura, come la misura morale, sono codici che appartengono a un mondo a cui Penthy non appartiene più. A costruire il suo orizzonte è invece una corporeità, una natura, scomposta e cruenta, libera ed estrema, fatta di brandelli di carne e viscere. Concreta metafora dell’abiezione di cui la follia di Penthy si nutre – a cavallo tra sessualità e cannibalismo, desiderio e disgusto.

Penthy fa parte di sé del corpo di Hecky, oggetto amato e respinto a un tempo, perché non esiste modo più profondo di possederlo, ma anche perché, suggerisce Viola Graziosi “inglobare il marcio dentro di sé è l’unico modo per evitare che faccia male all’esterno”, anche a prezzo fare di sé l’ospite dell’infezione.

Un corpo – libero ai limiti della sopportabilità e canceroso a un tempo. Questo è Penthy, ma è anche la sua voce, che si moltiplica e per chiudersi in un anello più simile al cappio, esplorando le lingue, le possibilità di comunicazione, le declinazioni del possibile. La giovane drammaturga Mougel costruisce un testo di stimolante e ardita complessità, che chiarisce solo quanto è strettamente necessario e oltre non chiede ricomposizione.

Teatro I lo affida a una Viola Graziosi superlativa, che si fa del suo corpo la marionetta di Penthy, della sua voce lo strumento, il veicolo per scavare del fondo della terra da cui Penthy sembra provenire.

Ed è proprio sulla voce che puntava questo spettacolo. Porta attraverso un microfono olofonico che esigeva dagli spettatori di accostarsi alla messa in scena in cuffia, così che il suono delle parole pronunciate sul palcosenico risuonasse dentro la testa di chi se ne trovava al di fuori.
Un’idea indubbiamente di grande suggestione, come si può ben constatare quando la voce della Graziosi si fa sussurro, muovendosi fra i lobi degli astanti, e che forse proprio per questo avrebbe meritato di essere sfruttata più ampiamente.
La regia di Renzo Martinelli sembra invece prediligere la molteplicità.

L’obiettivo sembra quello di sollecitare tutti i sensi, in una girandola di suoni interrotti e lampi di luce ossessivi caldamente sconsigliati a chi vada soggetto ad attacchi epilettici, che finiscono però col cadere nella sovrabbondanza che sacrifica la potenza quantomai concreta dell’emotività e delle percezioni più espressive in favore di un gioco intellettuale di tecnica.

Nelle parole fatte suono, nel tentativo di raccontare l’irraccontabile, di superare ogni linearità, si ritrovano alcuni dei cardini di quel teatro post-drammatico a cui questo lavoro può e con ogni evidenza vuole essere ascritto.

La forza dirompente di Penthy sta a dimostrare – forse a dispetto della messa in scena, coerentemente con l’interpretazione, che il contemporaneo sa è può raccontare l’angoscia degli anfratti più cupi dell’umano senza indulgere all’artificio invadente, scegliendo invece il simbolo. il buio di un palco nudo e la mestizia delle giunture lasse di una marionetta abbandonata a se stessa specchiano il buio della perdita di sé con spietata, sufficiente esattezza.

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