Tra documento e fiction, passato e presente, Storia e vita vissuta, Giovanna Gagliardo racconta in “Il mestiere di vivere” la solitaria morte (nel prologo) e poi la vita dello scrittore. Da quando, appena 20enne, scopre la poesia narrativa, all’incontro con la letteratura americana di Steinbeck e Faulkner, alla fondazione della Einaudi. Il ripasso culturale di un grande autore e quello politico del ventennio fascista, la sua attualità, lo sguardo libero che va dalle colline piemontesi all’azzurro mare di Itaca
Giovanna Gagliardo è una firma storica del cinema italiano, prima come sceneggiatrice per Una stagione all’inferno di Nelo Risi, racconto della vita e della morte del poeta “maledetto” francese Arthur Rimbaud e per cinque film di Miklòs Jancsò, da La pacifista a Il cuore del tiranno, poi anche regista, dal film tv Maternale a Bellissime, racconto in due atti e quattro parti del Novecento italiano visto con ricco materiale d’archivio nelle figure femminili che l’hanno percorso. Nata in Piemonte e vissuta a Torino, dopo tanti anni a Roma ha scelto di ritrovare la vita e i testi di Cesare Pavese, figura centrale e carismatica della letteratura italiana del secolo scorso. Ne è nato così Il mestiere di vivere, un film a metà tra documentario e riattualizzazione fiction, passato e presente, storia e vita vissuta.
Spiega la regista: “Ritrovarlo e rileggerlo oggi, a distanza di tanti anni, è stata per me una vera e propria folgorazione. Prendi in mano i suoi romanzi, le poesie, soprattutto i suoi diari, e già dalle prime righe capisci che ti sta parlando del presente. Non del suo presente, ma del nostro. Ti costringe a non cercare risposte semplici, ti sbarra la strada se provi a schierarti. Ti mette alla prova. Lui non spiega, non suggerisce, non cerca la tua approvazione. Il Pavese che ricordiamo frettolosamente come il poeta infelice, suicida per amore, è molto di più. Forse l’intellettuale scomodo che oggi ci manca, l’antipatico mai compiacente, il magnifico compagno di viaggio che dalle colline di Santo Stefano Belbo ti fa intravedere il mare azzurro di Itaca”.
Il racconto parte dall’epilogo, da quel fine settimana del 26/27 agosto 1950 che sarà l’ultimo, frenetico frammento di vita di Cesare Pavese, quasi 52enne. Si aggira per la città deserta, cerca amici che non trova, scrive, telefona. E la domenica sera, in un albergo vicino alla stazione di Torino, mette fine alla sua esistenza. Ma l’epilogo è in realtà la premessa per raccontare un’altra storia, questa vitale e ricca di sfide e incontri, cioè l’attività intellettuale di un poeta che, appena ventenne, scopre la poesia narrativa, per poi cimentarsi nel romanzo breve, quindi portare in Italia la grande letteratura americana, da William Faulkner a John Dos Passos, da Gertrude Stein a John Steinbeck. Pavese infine, nel 1933, insieme a Giulio Einaudi e a un gruppo di straordinari ragazzi usciti dal liceo D’Azeglio, contribuirà a far nascere la casa editrice Einaudi.
Gagliardo unisce materiali di repertorio e molte interviste (fa tenerezza rivedere Fernanda Pivano che parla del suo maestro), poi li alterna con suggestioni visive e musicali ricreate nei luoghi pavesiani, che fanno da sfondo evocativo ai suoi testi, alle lettere, alle poesie, ai suoi diari. L’effetto che suscita è duplice. Quello del ripasso culturale, la voglia di ritornare a un autore che tutti noi abbiamo incontrato, molti da giovanissimi (per l’occasione, si possono rileggere alcuni testi giovanili raccolti nel titolo Ciau Masino; e tutto il resto ovviamente). E che ci ha aiutato a inquadrare un periodo da noi non direttamente vissuto (l’angusto ventennio fascista), ma che in qualche modo ci appartiene e pesa su di noi, soprattutto in questo orrendo periodo nostalgico. Ma il film suscita anche una sensazione grande di libertà, del pensiero e dei sentimenti, ci offre l’orizzonte aperto di un intellettuale che come tale tende, per le idee e i riferimenti che propone, a superare i tempi e i luoghi in cui è vissuto.
Il mestiere di vivere, documentario di Giovanna Gagliardo