Leonardo Vinci, compositore di scuola napoletana vissuto nel 700, è l’autore de “Li zite ngalera” da ieri in scena alla Scala. Non un’opera buffa, non un dramma giocoso ma una “commeddeja pe museca” in cui maschio, femmina, castrato, femminiello, gay o trans era lo stesso, di fronte alla fatica di conquistarsi un posto nella società. Un’opera in cui la musica mescola felicemente i mezzi espressivi come le carte di un mazzo da gioco. A far da mazziere sul podio Andrea Marcon, profondo conoscitore della musica del periodo, coadiuvato alla regia da Leo Muscato che sceglie una lettura con costumi quasi d’epoca
Due cose vi sorprenderanno se andrete alla Scala (ne vale la pena) a vedere Li zite ngalera di Leonardo Vinci (ieri il debutto). La prima sorpresa, un po’ sciocca se vogliamo, è non poter staccare gli occhi dal display per capire che cosa dicano e cantino in un’opera italiana. Nove personaggi su undici parlano dialetto, no, “lingua napoletana” per le circa tre ore di spettacolo.
La seconda, antropologica, è rendersi conto che nella Napoli del 1722 – l’anno in cui Li zite andò in scena – il sesso fluido era una realtà acquisita nel teatro che raccontava la vita e accettata nella vita vera. Maschio, femmina, castrato, femminiello, gay o trans era lo stesso, di fronte alla fatica di vivere e di conquistarsi un posto nella società. La materia non faceva discutere, scandalizzare, orripilare né twittare o legiferare “contro”. La si viveva e basta. Al punto che il teatro, grande industria del tempo soprattutto a Napoli – ma anche a Roma, Venezia, Bologna, Firenze – offriva riscatto e successo ai bambini che venivano castrati prima della muta della voce, nella fondata speranza, non nella certezza, che il cantante prossimo venturo sarebbe stato un prodigio di virtuosismo che metteva insieme i registri dell’uomo e della donna. E lui, alle spalle ogni indigenza.
Non c’è nessuna prigione nell’opera di Leonardo Vinci (un piccolo “da” e cambia tutto): la galera di cui parla il titolo è la nave sulla quale i due fidanzati (“Li” zite) saliranno per andare finalmente a sposarsi (a Sorrento probabilmente, la loro città). Tutto avviene anche per le vie di Vietri, “location” salernitana dell’opera, che il regista Leo Muscato concentra per praticità in un interno goldoniano da Locandiera. La trama c’è e non c’è, complicata ma in fondo semplice: una giovane donna, Belluccia (soprano), travestita da uomo col nome di Peppariello, è alla ricerca del fidanzato Carlo che l’ha lasciata dodici anni prima e se ne va in giro a fare il maschio alfa (ma canta con voce di soprano anche lui). Belluccia/Peppariello incontra Carlo, lo riconosce, ma per paura e per calcolo non si svela, così possono inseguirsi a perdifiato gli inganni e le voglie di una giovane, Ciommetella, che s’innamora di Peppariello senza sospettare sia una donna, di una vecchia, Meneca Vernillo (con voce di tenore), parente di Ciommetella, che s’innamora un po’ di tutti per fermare il tempo che fugge, del giovane figlio di Meneca, Titta Castagna (contralto), perso dietro a Ciommetella, per gli amici Ciomma, con contorno di anziano barbiere, Col’Agnolo (tenore), del suo garzone Ciccariello (controtenore, tanto per variare ancora di più la “paletta” del cast), che sparge scherzi e maldicenze, dell’arguto Rapisto (basso). Le coppie sbagliate si aggiustano come-si-deve secondo cuore, bellezza ed età quando arriva un basso che canta italiano, Federico, capitano di una nave attraccata a Vietri per evitare una tempesta. Combinazione: Federico è il padre di Belluccia, convinto in extremis a non punire la figlia e a non vendicarsi del fidanzato infedele, per fornire alla trama il lieto fine e la galera necessaria a chiamare il titolo.
Li zite ngalera non è un’opera buffa né un “dramma giocoso” ma una “commeddeja pe museca” che non se ne fa nulla delle etichette e delle convenzioni. In accordo con lo svolgimento della sua trama spontanea e cervellotica, la musica mescola i mezzi espressivi come le carte di un mazzo da gioco. Un’aria (forse una canzone, un ritornello insistito) può interrompersi con qualche battuta recitata, di chi canta o di chi assiste, e ritornare ad essere aria mutando colori. Recitazione e canto se la giocano alla pari prendendosi anche a schiaffi, senza rispettare le consegne del recitativo=azione, aria=commento espressivo.
In buca d’orchestra convivono felicemente orchestrali della Scala che “si sono scelti” per l’impresa extrarepertorio e giovani strumentisti de La Cetra, orchestra barocca fondata e guidata da Andrea Marcon, musicista che dirige “da dentro” la musica dal Cinquecento al Settecento che conosce come pochi. Archi “moderni” ma con corde di budello si fondono con liuti, tiorbe, fiati “d’epoca” e percussioni leggere come avessero convissuto da sempre, grazie al lavoro di un maestro dell’antico come Marcon. Ciò che lo strumentale fa a sostegno, a commento, a integrazione naturale delle voci, è uno spettacolo a sé, dove nessun cultore dell’intonazione ha da soffrire. E nemmeno l’ultimo spettatore della Scala.
La corsa senza freni di temi e tempi, di invenzione melodica e di varietà ritmica fa veramente rimpiangere che Leonardo Vinci, genio di una cultura musicale senza pari, sia tra quei morti giovani – come Pergolesi, Mozart, Schubert – dei quali non riusciamo a immaginare che cosa avrebbero potuto dare ancora alla musica. Da Andrea Marcon e dai musicologi che hanno accompagnato la messa in scena del lavoro con un convegno-lampo – Paologiovanni Maione, Dinko Fabris, Raffaele Mellace – veniamo a sapere che Handel (all’inglese) mandò perfino qualche “spia” a conoscere la musica di Vinci e a farsene mandare copie, per usarne anche qualcosa nelle sue opere forbite. Se insomma non fosse caduto a circa trent’anni sotto le forbici del destino (nemmeno la data di nascita è certa), non è azzardato pensare che sarebbe stato lui il nostro Handel, che da giovane a Roma aveva assimilato già molto.
Lo spettacolo della Scala corre insieme a Li zite ngalera (non può farne a meno). Giudicando impropria qualunque attualizzazione, almeno al primo incontro con un pubblico abituato a Verdi e Puccini, Leo Muscato sceglie una lettura con costumi quasi d’epoca (di Silvia Aymonino), in cui scene modulari e carrellate di Federica Parolini stanno al passo di carica degli eventi cambiando ambiente in pochi secondi.
La compagnia non è solo “di canto” ma di azione, recitazione e altro ancora, come nella Napoli fuori di testa di allora. Francesca Aspromonte si trattiene con eleganza nella vocalità di Carlo, che sarebbe un gentiluomo. Chiara Amarù freme nel ruolo della trascurata e tormentata Belluccia/Peppariello en travesti. Francesca Pia Vitale ha il compito apparentemente più facile – essere la giovane e bella Ciomma, desiderata da molti -, ma vocalmente impennato su agilità risolte brillantemente. Alberto Allegrezza è contagioso, come Meneca, nel gioco della farsa e del doppio senso. Antonino Siragusa è perfetto come Col’Agnolo, ch’è quel che nell’opera dev’essere il Barbiere come categoria. Raffaele Pe dà la sua voce e la sua tecnica di controtenore a Ciccariello. Filippo Mineccia si conforma alla rassegnazione di Titta, amante premiato dopo due ore e mezza di vane speranze. Marco Filippo Romano (Rapisto) è un altro esperto consumato nello strappare sorrisi. Filippo Morace, il capitano che sbarca per ultimo nello spettacolo, venendo dal mare viene premiato con un ingresso dalla platea e qualche scherzo con pubblico, in mano una gabbietta d’uccello cinguettante come un anziano Papageno. C’è spazio anche per due giovani dell’Accademia della Scala: Matias Moncada nell’immancabile numero del temutissimo turco (anche quello non ce lo siamo inventati) e Fan Zhou che fa cantare con grazia Na Schiavottella.
A proposito di talenti multidisciplinari (che a Napoli non avevano bisogno del concetto), c’è un momento preciso in cui il pubblico, se ha avuto dubbi, viene irrimediabilmente trascinato nel vortice di Li zite ngalera: quando su una Tarantella tutta la compagnia in proscenio canta, suona e danza, perché ogni attore-cantante ne era capace. E queste son cose che solo la Napoli di Vinci e del suo tempo sanno dare.
Foto: Brescia e Amisano@Teatro alla Scala