Torna il classico di Albee “Chi ha paura di Virginia Woolf?” nella rilettura di Arturo Cirillo anche in scena con Milva Marigliano. Scenate di un matrimonio all’americana
Ecco che barcollando fanno il loro rumoroso ingresso Martha (Milvia Marigliano) e George (Arturo Cirillo), la coppia di anzianotti che si insedia sgraziatamente sul palco e avvia le danze di Chi ha paura di Virginia Woof?.
Annoiati da un matrimonio a dir poco avvizzito, i coniugi scelgono di invitare una coppia di giovani ospiti, la fragile Honey (Valentina Picello) e lo spavaldo professore di biologia Nick (Edoardo Ribatto).
Proprio da questo pretesto si dipana una doppia querelle coniugale, alimentata da numerosi bicchieri di Brandy e dal desiderio di evadere dalla noia quotidiana attraverso il perverso gioco del massacro psicologico. Il litigio costruttivo non fa parte dei piani di George e Martha, che nell’esplosione dello scontro finale, intendono coinvolgere anche degli innocenti: Honey e Nick vengono trascinati nel baratro della crisi matrimoniale, ritrovandosi a dover giustificare a una coppia di estranei situazioni appartenenti al proprio passato.
La volgarità e la dissolutezza di Martha emergono perfettamente dall’interpretazione gracchiante di Mivia Marigliano, così come l’essere subdolo e viscido di George, interpretato da Arturo Cirillo e la candida ingenuità coppia di novelli sposi. Attraverso lo scambio viene rivelata una certa specularità: i giovani sono la proiezione di ciò che i vecchi coniugi erano un tempo. La recitazione si fa progressivamente sporca e gradualmente compare tutto il cinismo e la falsità di cui è capace la società contemporanea.
La scena in costante mutamento rappresenta un elemento di particolare interesse in quanto metafora sia della confusione mentale derivante dai fumi dell’alcol, sia dell’isolamento del singolo che a rotazione viene vissuto da tutti i personaggi. All’interno di uno squilibrato gioco psicologico, scandito dalla cantilena “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, quattro vite dovranno fare i conti con le proprie azioni e ambizioni; il fantasma della scrittrice disturbata e suicida viene solamente evocato in qualità di emblema delle fragilità umane e come sinonimo moderno della paura di rimanere soli.
Arturo Cirillo rende omaggio al testo dell’americano Edward Albee giocando sulle analogie e le differenze di quartetto, che addentratosi in una sorta di messa a nudo delle verità personali non riesce più a uscirne, rimanendone al contempo vittima e carnefice.
Quante liti in quei salotti!
Prima di Albee una lunga schiera di nordici infelici come Strindberg e Ibsen ma anche la grande drammaturgia americana di O’Neill e Miller prima e dopo la caduta
Rancori o rimorsi? Mettiamolo ai voti. È bellissimo litigare ogni scena e due volte la domenica sotto gli occhi del pubblico: rinfacciarsi di tutto e di più, complice molto whisky come nella drammaturgia d’epoca, prima che O’Neill introducesse anche la morfina e Gazzo la coca. La nuova edizione di Chi ha paura di Virginia Woolf? che Edward Albee anche se non ufficialmente pare avesse scritto per una coppia omosessuale (come Il sottoscala che presto torna in scena), arriva dopo molti ricordi di grandi mattatori della scena: la prima volta nel ’64 si sbranarono in scena la Ferrati e Salerno, poi si inserirono a larghe fauci la Proclemer e Ferzetti, la Brignone e Alberto Lupo, Corrado Pani con la Malfatti e infine Gabriele Lavia, pure regista, come Cirillo, con la Melato su un palcoscenico che era già un ammasso di rovine “occidentali” su ripiano inclinato tra cui un divano.
Il divano del salotto, come da toponomastica ottocentesca, è stato un elemento scenico molto usato da certo teatro di liti coniugali e di feroci ripicche e basta oggi pensare a Carnageper scovare un recente esempio. Il teatro classico, quello in tre atti, ha sempre accarezzato l’idea di marito e moglie che si offrono al cannibalismo affettivo sotto gli occhi della platea che volentieri si identifica.
A partire dalla Moglie ideale di Marco Praga e passando attraverso le varie pochade che, con le loro storie di corna, sono state una scorciatoia per le liti coniugali sessuali, anche se a lieto fine. E ci sono casi in cui l’eterno litigio di marito moglie diventa occasione di un divertissement con qualche ombra, vedi Letto matrimoniale o la saga di Vita col padre, dove litigavano la Morelli e Stoppa che erano come sposati da sempre in scena, una delle grandi coppie del nostro teatro che spesso fa le veci di famiglia (Proclemer e Albertazzi, Brignone e Santuccio, Tieri e Lojodice, Ricci e la Magni, Fo e la Rame).
L’americano Albee, fu detto subito, si richiama nel suo fortunatissimo testo (il film con Liz e Burton, mai coppia fu più adatta ai ruoli) ai grandi drammaturghi di un’epoca in cui non si poteva divorziare: viene in mente Casa di bambola di Ibsen (non a caso Ronconi ne fece una lettura solo con sedie in scena, alla Ionesco), viene in mente, e molto, Danza di morte di Strindberg, un altro match di boxe affettiva (tanto che fu ridotto in un Play Strindberg sul ring), viene in mente il Diario privato di Léataud portato pure in scena e infine non si dimentica Dopo la caduta di Arthur Miller, un atto di rimorso con optional di perdono nei confronti di Marilyn. Ma non solo le liti borghesi dei capitalisti americani ricchi (Piccole volpi di Lillian Hellman) dei grandi nordici infelici anche per la geografia che oscura il sole, tanto che non citare Bergman sarebbe un peccato mortale e una colpevole dimenticanza per le sue Scene di un matrimonio: ma anche Eduardo, o sole mio, è noto per alcune scenate a porte chiuse memorabili e Sabato, domenica e lunedì le sintetizza tutte meravigliosamente, al ragù.
Più avaro di parole, litiga con gusto anche l’inglese Pinter, Nobel per le nevrosi, grande sceneggiatore di Losey. Naturalmente si può anche viaggiare molto indietro e arrivare alla mitica Lisistrata, ricordare la classe del classico La bisbetica domata (promessi sposi litigarelli), facendo tappa nel sense of humour del 90enne Neil Simon che ha reso litigarella la coppia giovane nel loft di A piedi nudi nel parco arrivando a scomporre la matassa in stanze generazionali con Plaza suite.
Pure il musical non è nuovo a questi attriti, basta ricordare, oltre a Kiss me Kate, Il giorno della tartaruga di Garinei e Giovannini, laggiù nel 64, con Scala e Rascel che baruffavano per tre ore mostrandosi allo specchio non ancora così deformante delle borghesi platee che avevano appena imparato l’uso del flashback.