Era così il grande pianista americano. Sorridente e accessibile come la sua musica. Si poneva domande serie sulla morte ma quando suonava dava sempre risposte vicine alla vita, lontane dal dolore e dalla tragedia
“Leggero come una piuma” s’intitolava il secondo album del Return to Forever, il gruppo con cui Chick Corea spiccava nel ‘71 il volo oltre i confini del jazz, già violati suonando con Miles Davis in Bitches Brew. E così era, il pianoforte di Armando Chick Corea: leggero, immediato, solare.
La tentazione di leggere i suoi concerti in solo come risposta a Keith Jarrett era insistente e ingiusta. Jarrett ha elevato il rito dell’improvvisazione all’esperienza totale della “composizione istantanea” senza rete e senza respiro. Ma Corea non ha mai fatto del suo dialogo col pianoforte acustico un’avventura rischiosa fra stili e linguaggi, non l’ha vissuto come una funzione religiosa. In sala arrivava, spesso in sovrappeso, con camiciole a fiori, sorridente e accessibile; giocava col pubblico. I suoi recital non avevano niente di alto e formalizzato. Suonava fogli d’album dalle sue raccolte personali e dall’antologia del grande Jazz, citando Earl Hines, Thelonious Monk, Bud Powell. Entrava anche nel giardino della musica classica, trasformando Preludi di Scriabin in “improvvisi” jazz che non sarebbero spiaciuti al visionario Aleksandr. Era indubitabilmente sé stesso quando spazzolava le onde della melodia mediterranea soffiandovi un po’ di Ravel e De Falla. Trascinava il pubblico a cantare con lui. Senza volgarità, leggero come una piuma.
Domande, risposte.
L’uomo diceva di porsi sempre domande serie sulla vita: “da quando ho dieci anni rifletto sul significato della parola immortale” (“Non soggetto alla morte” gli suggeriva l’American Heritage Dictionary). Ma il musicista dava sempre risposte vicine alla vita, lontane dal dolore e dalla tragedia. I primi volumi delle Piano improvisations (Ecm) erano cristalli di canzoni, che poi si materializzavano per davvero nel primo Return to Forever (sempre Ecm, prima degli album Polydor), in cui Flora Purim, brasiliana voce d’angelo, soffiava nel vento due candide poesie di Neville Potter: What Game Shall We Play Today (“guardati attorno my people, vedrai che amare la vita è paradiso, tutti insieme”) e Sometime Ago (“Qualche tempo fa ho fatto un sogno, felice, lungo, libero… vediamo come fare per renderlo realtà”). I delicatissimi Children’s Songs (1983), quasi scappati da un angolino del Corner di Debussy, erano stati un’altra, serena risposta. Cui sono seguite tante altre di medesimo tenore, disperse in ottanta album, sessant’anni di carriera e settantanove di vita, fino al 9 febbraio 2021.
Dal free a Mozart.
Eppure anche Chick Corea usciva dai nervi scoperti del post-68, del free jazz radicale, delle visioni di Coltrane, delle decostruzioni di Ornette Coleman, dal pianismo forsennato di Cecil Taylor. Come eco di quel mondo restano due album per i quali anche i più malati di intransigenza stilistica si tolgono il cappello: ARC, mirabile trio con Dave Holland e Barry Altschul (11, 12, 13 gennaio 1971, Ludwigsburg) e il doppio Circle, mitico album giallo, sempre Ecm, registrato dal vivo insieme ai sax di Anthony Braxton, al basso di Holland, alle percussioni di Altschul (21 febbraio, ORTF, Parigi).
Suonando “latin jazz” con Mongo Santamaria, Chick si era caricato di idiomi ispanici che sempre avrebbe esibito con orgoglio, registrando un album manifesto dal titolo My Spanish Heart, infilando nel grande album del Jazz una sfilata di nuovi standard come La Fiesta, Spain, Armando’s Rhumba. A sua gloria e fama.
Ma anche il Vecchio Mondo lo aveva preso sotto braccio. Friedrich Gulda, pianista irrituale, irritualissimo, mozartiano doc, lo aveva coinvolto in un “ping pong” di improvvisazioni in cui Armando Chick Corea era uscito meglio per originalità. E un altro austriaco, Nikolaus Harnoncourt, autore di una delle più importanti Bach Edition della storia, musicista prima filologico e poi extralibero, lo aveva diretto, a quattro mani con Gulda, in un Mozart concertante come solo un folle antitradizionalista poteva osare.
Corea first.
Un accidente quasi burocratico ha concesso a Chick Corea d’essere il primo a fissare in disco la forma del concerto per solo pianoforte come geografia allargata di quel che nella musica cosiddetta classica è norma. Lo standard solo-piano era nell’aria. Jarrett già lo suonava dal vivo tra il 1968 e il 1970. Ma non fu Keith a fermarlo in disco, come ha svelato Steve Lake. Solo la scaletta programmata da Manfred Eicher per tre album offerti a tre pianisti di cultura afroamericana ha voluto che Corea entrasse per primo in studio, nell’aprile del 1971 (Piano Improvisatons vol.1). Jarrett lo seguì in novembre con Facing You; Paul Bley registrò Open, To Love nel settembre del 1972.
Tre su quattro.
Presuntuoso non fu mai, Chick Corea. Anzi. L’elenco dei pianisti “che mi hanno ispirato” era breve quanto vario e sorprendente: Earl Hines, James P. Johnson, Art Tatum, Duke Ellington, Vladimir Horowitz, Thelonious Monk, Bud Powell, Glenn Gould, Herbie Hancock, Evgeny Kissin, Keith Jarrett, Gonzalo Rubalcaba e Stefano Bollani (sic).
Con Armando Chick Corea si chiude un altro coperchio sulla tastiera del nostro tempo. Ora che Joe Zawinul non c’è più e Keith Jarrett tace, tre quarti del pianoforte con cui Miles Davis ha scritto la musica del Novecento, fuori le mura dell’Europa, sono ridotti al silenzio. Resta solo Herbie Hancock. Poi il conto è chiuso.