Stasera alla Scala. Valery Gergiev torna a dirigere (la prima volta è stata nel 1998) l’Opera di Musorgskij e con la regia di Mario Martone trova nuovi stimoli per reestituirne l’affascinante complessità storica
Passato, presente e futuro. Tutti insieme. In una sera, in uno spettacolo e in poche ore. Le probabilità di essere riusciti a zippare il Tempo non sono basse, perché parliamo di Mario Martone, uomo creativamente “alla pari” nel teatro e nel cinema, e di Valery Gergiev, direttore russo baciato dal genio quando tocca la musica della sua terra. (Chi l’ha ascoltato lunedì 11 febbraio con la sua orchestra del teatro Marinskij, in Quadri a un’esposizione da brivido, conosce il fenomeno di cui si parla. Come da brivido era anche il bis della sinfonia da La forza del destino di Verdi, ad essere sinceri).
Chissà. Abbiamo sette possibilità per controllare la realizzazione dell’impresa, alla Scala, da oggi alla fine del prossimo mese.
Chovanščina di Modest Petrovič Musorgskij (1839-1881) inizia nel teatro del Piermarini una nuova storia con lo spettacolo di Martone e continua una storia ch’è già quasi tradizione con Gergiev (leggi Ghiérghiev). L’ultima volta di Chovanščina alla Scala, vent’anni fa, era lui in buca (marzo 1998). E fu un successo quasi eccessivo ma rivolto alla persona giusta, perché sopra la regia importata dalla Russia c’era molta polvere. Come fosse un direttore di casa, su Gergiev scese come un tuono l’entusiasmo del pubblico, nel primo spettacolo di un festival che il teatro Marinskij di San Pietroburgo portava a Milano per un gemellaggio fra le città che dura da mezzo secolo.
Gergiev aveva mantenuto le promesse e rispettato la fama che ormai lo circonda, di un musicista travolgente come un eroe di Gogol e come molti personaggi che agitano quest’opera lasciata aperta dalla morte di Musorgskij nel 1881, musicalmente modernissima grazie anche alla revisione di Šostakovič, che giustamente si esegue anche qui. (Versione che debuttò nel 1959 proprio al Kirov di Leningrado, poi tornato Marinskij e oggi diventato uno e trino, con la sala storica, una moderna e un nuovo, supermoderno auditorium).
Di Gergiev non aveva impressionato quel che aveva di pronto in valigia, bensì ciò che aveva costruito sul posto, alla Scala, con l’orchestra “fatta di amici che conosco da vent’anni e sempre collaborano con i cantanti e il coro come meglio non si potrebbe”; con il coro (oggi preparato dal mago Bruno Casoni), “che dev’essere molti cori e personaggi insieme: il popolo di Mosca, il potere assoluto, i militari, la Chiesa ortodossa, i vecchi credenti”.
Già, perché Chovanščina non è “la storia di quella ragazza russa…”, come annaspava un mio colto caporedattore di qualche anno fa, ma uno di quegli spaccati di storia russa, colta in momenti-chiave del passaggio fra antichi e nuovi assetti, che dall’opera al cinema rappresentano un modo “protetto” e allusivo di guardare in faccia alla realtà di sempre. Di Musorgskij, di Šostakovič, di tutti i cittadini del mondo. Chovanščina sta per “l’affare Chovanskij”, anzi “l’affaraccio “: lotta cruenta per il potere di e contro i Chovanskij padre e figlio, dove il nuovo che avanza è sempre Pietro il Grande e il vecchio che muore sono i credenti nella religione all’antica, i raskolniki perseguitati dalla storia e nell’opera fatti morire nel fuoco di un suicidio di massa che farebbe lampeggiare gli occhi di gioia a qualunque uomo di cinema, com’è del resto Martone.
Il passato è la storia, la lingua, la musica di quest’opera meravigliosa e gigantesca (5 atti) che celebra l’anima della madre Russia quasi più epicamente di Boris Godunov, l’opera precedente di Musorgskij, perché ha uno sguardo drammaturgico nuovo. «Boris – osserva Gergiev, garante musicale di questo passato – ha lo zar al centro dell’opera e sempre presente. In Chovanščina, lo zar, Pietro I il Grande, non c’è, non canta, ma riempie l’opera come una presenza costante. Proprio perché ne è al di là».
«La nuova produzione che stiamo realizzando insieme e Mario Martone – insiste Gergiev -, con il quale lavoro per la prima volta, restituisce all’opera la sua contemporaneità perché Chovanščina travalica la storia: non sono i russi che guardano se stessi, ma la Russia che guarda all’Europa, all’Asia, e in questo la situazione è esattamente quella di allora. Il protagonista è lo zar Pietro, ma il messaggio è che il popolo ha bisogno di una guida e alla fine riesce ad avere la sua guida, a fare il suo leader». Capito?
«Io sono di San Pietroburgo – conclude Gergiev – e noi dobbiamo molto a questo zar che ha edificato la città; ma l’importante è quel che fece per ricostruire una nazione allora smembrata». Più presente di così.
Il futuro? Sarà tutto da vedere. «Mettere in scena Chovanščina – confessa Martone –, significa compiere un viaggio. L’opera è calata nella storia ma narrata in forma libera. Musorgskij s’immerse in dettagli precisi della storia russa; pensiamo ai personaggi, agli eventi, alle citazioni, ai canti popolari, ma la sua capacità di narrare è quella di un musicista profetico… Tutto è frutto di un incredibile assemblaggio. Musorgskij compone l’opera a blocchi secondo un procedimento che direi cubista: ci sono episodi che appartengono a momenti diversi, alcuni accaduti quanto Pietro aveva 10 anni, altri quando aveva già il pieno potere. Alcuni personaggi appaiono e poi scompaiono; Golycyn, uno dei protagonisti, canta in un solo atto. Nella struttura narrativa, Musorgskij è mosso da un furore visionario».
«Quello che ha aperto la possibilità di leggere l’opera in chiave prospettica – conclude Martone – è che ci sono momenti storici in cui è ancor più difficile immaginare il domani. Questo è il caso del tempo nostro e di Chovanščina. Ma non volevo ridurla a un presente che rischia di appiattirsi nella cronaca. Una profondità è necessaria per mantenerne il respiro epico. Per questo ho immaginato un futuro in cui si possano proiettare le storie narrate da Musorgskij, i dubbi e le paure del nostro presente, l’immaginazione del domani”. Insomma un “non luogo” prossimo o non prossimo venturo che Margherita Palli, altra maga scenografa dell’immaginario teatrale, ha disegnato “nello spazio e nei colori del gelo dall’inizio alla fine”.
Dicevamo: passato, presente e futuro. Da oggi alla prova-Scala.