Ciarlatani, gli ingannatori di se stessi

In Teatro

Al Teatro Franco Parenti fino a domenica, Silvio Orlando e una una compagnia ben assortita portano in scena un saggio dell’intimità dell’attore solo apparentemente disimpegnato

In greco attore si dice hypocrites: colui che sa ingannare. E – soprattutto – ha bisogno di ingannarsi. Chi sono gli attori, in fondo, se non i Ciarlatani in scena al Teatro Franco Parenti fino a domenica 20, costretti a cercare di non essere schiacciati dalla nemesi del successo, impossibile, nebuloso come è in questo lavoro l’ombra lontana di chi ce l’ha fatta: come Eusebio Velasco, regista di culto che scomparendo ha lasciato dietro di sé discepoli goffi, come Diego, che si muove dentro al teatro realistico di un letto d’ospedale fino a che non immagina universi letterari e deliranti, e figlie sole come Anna che si immagina cinema e testi per pochi ma deve vivere facendo la cattiva di un teatrino per bambini, mentre si sente obbligata a cercare nello stesso mestiere un padre di cui ricorda a fatica i tratti. Vuoti da colmare soltanto dentro il sogno, nello spazio in cui il possibile allarga le sue maglie, il successo arriva prima ancora di aver cominciato e l’immaginazione regala una possibile misura del mondo, l’unica dentro cui i superlativi di cui ci si riempie la bocca e gli immaginari possono avere un senso. Ma se l’attore non fosse soltanto un ingannatore quanto uno sciamano, il solo capace di toccare un grado di consapevolezza talmente assoluto da svelare che a recitare non è lui, ma il mondo? 

Lo spettacolo del drammaturgo spagnolo Pablo Remòn, che cura anche la regia italiana, si muove con una grazia solo apparentemente svagata su questo confine, lieve come lo possono essere solo i pensieri più seri e più dolorosi, dove si scopre un fallimento che bisogna darsi il coraggio di vedere. Non solo quello di chi – imprigionata come la vecchia attrice di telenovelas – dentro a un mestiere senza più un briciolo di magia – prova, cinica e sardonica, a mettere a terra le aspettative della giovane Anna che crede ancora alla recitazione come il mondo la sogna. Ma anche quello della stessa Anna, costretta (come tutti i giovani interpreti) a crearsi uno spazio per essere attrice (ed essere sbeffeggiata e rimproverata come tale, soprattutto da chi dovrebbe supportarla, come i suoi famigliari) e a ingoiare tutte le amarezze del mestiere d’attore prima di trovare le parole per ammettersi che non ama davvero quel che credeva essere il suo senso. Questo lavoro, fortemente voluto, in Italia, da Silvio Orlando, che gli infonde tutta la sua malinconica ironia, diverte – apertamente – e interroga in modo sottile, ammesso che si sia disposti (come sulla scena) a riconoscere il confine tra reale e sognato.
A identificare il momento in cui, con la fine del gioco incosciente dell’infanzia, si inizia a recitare la parte della vita adulta. 

Dove si trova più verità se non nei sogni? Tutto Fellini è lì a dimostrarlo meglio di chiunque altro, e Remòn sembra pronto a intercettare quella eco, inserendola in una struttura per capitoli che si allontana da quell’immaginario d’autore per preferirne una più scanzonata nei modi e piana nelle parole, dove a Blu Yoshimi è affidata l’anima più riflessiva e dolente, a Francesco Brandi quella forzatamente sopra le righe che i professionisti della scena si costringono a indossare quando diventa business, eccitati a forza a suon di strisce di cocaina o di grandi nomi d’accontentare, e a Francesca Botti quella rigorosa e confusa a un tempo del mondo di fuori che guarda spesso senza capirlo l’attore dibattersi dentro una scatola dei sogni che si muove nel buio, in cui basta voltare un pannello per cambiare il mondo. Vederlo trasformarsi da ospedale a camerino a quei bar notturni dove a uomini venuti da lontano e capaci di affidano le verità più intime. Sono guidati da Orlando impeccabile maestro di cerimonie, che porta sul palcoscenico, entrando e uscendo dai personaggi, il caratteristico stile interpretativo che rende uno degli attori più amati. Risultano tutti convincenti, nel loro essere contemporaneamente individui e tipi umani individuabili con una chiarezza che viene meno quando si pretende di distinguere, su un palcoscenico, se c’è qualcosa di più vero di quello che viene rappresentato. 


Che sia più profondo e intimo di come sia stato letto (o forse di quanto volesse dichiararsi) Ciarlatani lo confessa tra un incipit e un finale dove il cambio di tono è repentino eppure non stonato, e si legge bene il senso di un’operazione che vuol fare qualcosa di più della simpatica messa alla berlina delle fatiche e delle ipocrisie del mestiere d’attore. o del gioco citazionista che tiene insieme Sarah Kane e le fiction televisive. Si tratta, piuttosto, di un lavoro che ha l’ambizione di toccare l’insondabile: svestiti i panni di un altro, all’attore, chi resta? Chi è davvero chi lavora ad essere altri? Ciarlatani suggerisce quanto è pericoloso, ingannare fino al limite di perdere se stessi, e sembra chiedere un moto di comprensione e calore verso l’imbroglione che – davanti all’irruzione del reale – ammette di aver dovuto credere ai film per mancanza di alternative. Così come ai suoi sogni, grotteschi e salvifici, dove immaginarsi genio ed eroe. Per non scoprire, magari, (o per difendere il proprio diritto a farlo) di aver sempre plagiato altre vite, sognato i sogni degli altri. Quando si chiude il sipario, pare di sentir la voce di quell’impiegato che, cinquant’anni fa, sognava una rivoluzione per cui era in ritardo, e avvertiva il mondo: “Ora aspettami fuori dal sogno, ci vedremo davvero, io ricomincio da capo”.

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