Il bravo Alessandro Serra mette in scena un “Giardino” senza impronta. Ci sono mestiere e grande talento ma poca profondità
Infiniti pericoli minacciano i registi, soprattutto quelli di talento. Tra i tanti, il peggiore è quello dell’eleganza eccessiva, della raffinatezza esteriore, di quella bellezza smaccata e fatua, disposta ad arte per stupire il pubblico, per irretirlo sfacciatamente. Se poi il testo da mettere in scena è Il giardino dei ciliegi, si aggiungerà la tentazione della malinconia, la più ricattatoria, magari con pianoforti invisibili che fanno subito borghesia decadente e valzer vorticosi come in una Finis Austriae dello spirito.
Alessandro Serra è senza dubbio un regista di talento. Qualche anno fa in molti si sono chiesti, sbigottiti, da dove fosse spuntato un artista capace di quella fuga nell’Es che era ed è ancora il suo Macbettu, da vedere e rivedere prendendo appunti sui nostri archetipi e sui nostri incubi più nascosti, che mai avremmo pensato parlassero in sardo. Poi c’è stata un’altra prova di livello con Ibsen: Il costruttore Solness con Umberto Orsini, ambientato in un mondo altrettanto oscuro e un po’ espressionista in continua decostruzione.
Quanto a questo suo passaggio cechoviano, al teatro della Triennale fino a sabato, Serra ha immaginato una sorta di veglia funebre, che atto dopo atto si trasforma in una frenetica sonata degli spettri con una punta di varietà, tra istantanee di gruppo con l’interno bara della scena come sfondo e giochi di ombre per sottolineare e ribadire l’inconsistenza dei personaggi, i loro arresti esistenziali, le indecisioni patologiche e le silenti depressioni riposte nei bauli di viaggio. Senz’altro è intrigante l’intuizione di trattare i personaggi come se fossero già morti: è il testo stesso che mostra a poco a poco la loro indifferenza alla vita, alla morte, al destino in ogni sua declinazione, e non è casuale l’immagine di Lopachin divenuto becchino dopo l’acquisto del giardino a scopi speculativi (e di vendetta di classe).
Insomma quello che colpisce è certo la coreografia sapiente, insieme alla padronanza dei movimenti scenici. Ma la tecnica non basta a raccontare qualcosa dei personaggi e delle loro relazioni: è come se a ogni meraviglia visiva – e ce ne sono diverse – non corrispondesse quasi mai una meraviglia emotiva. Così lo spettacolo procede in un freddo slalom fra trovate ben realizzate ma quasi sempre fini a se stesse, e con attori spaesati che recitano un Giardino dei ciliegi qualunque, senza impronta e senza firma. Strano a dirsi, ma è come se il tutto mancasse di regia, nel senso di una corrispondenza tra parola e movimento, tra senso e significato. Tanto che la maggior parte delle battute viene buttata via, come nel finale, con un Firs caricaturale che sembra dica per sbaglio la sua chiusa: “La vita è passata e io è come se non l’avessi vissuta”, senza nemmeno il sospetto di un’emozione.
Fotografie © Triennale