Natalie Portman firma da regista, oltre che interprete, “Sognare è vivere”, un complesso affresco storico-familiare ispirato alla figura e all’autobiografia del grande scrittore Amos Oz. Il racconto parte dalla Seconda Guerra Mondiale e dall’Olocausto per approdare nella Palestina del 1945, contesa tra arabi ed ebrei, una terra attraversata da tanti drammi sociali e interessi mondiali, che finiscono per condizionare anche le storie personali. “Un appuntamento per la sposa”, opera seconda di Rama Burshtein, che 5 anni fa ha conquistato la Mostra di Venezia con “La sposa promessa”, è una commedia dal sapore dolceamaro in bilico tra ortodossia perbenista e rivendicazioni femminili
Sognare è vivere di Natalie Portman è ambientato a Gerusalemme, nel 1945, la città dove il piccolo Amos (Amir Tessler) cresce e studia, impara a conoscere la storia e la letteratura, e soprattutto a prendere le misure di un mondo tutt’altro che facile, nella Palestina ancora sotto il mandato britannico. La Seconda Guerra Mondiale s’è appena conclusa e lo stato ebraico sta per nascere, circondato da grandi aspettative destinate però ben presto a incagliarsi in una situazione di guerra perenne, ben lontana dai desideri e dai sogni dei “pionieri”, che per primi erano partiti dall’Europa per fare finalmente ritorno alla “terra promessa”.
Il piccolo protagonista è lo scrittore israeliano Amos Oz e la sua infanzia viene raccontata a partire dal romanzo autobiografico Una storia di amore e di tenebra, bestseller internazionale pubblicato nel 2004 (in Italia da Feltrinelli) ma soltanto adesso portato sugli schermi dall’attrice israeliana (da tanti anni naturalizzata americana) Natalie Portman. Una scelta che lei ha descritto come “necessaria”, frutto di una vera e propria ossessione durata oltre dieci anni. Parafrasando questa sua dichiarazione, potremmo però dire che il risultato, in termini cinematografici, purtroppo non è così “necessario”, pur non essendo disprezzabile.
Dolente ritratto di una donna e di una madre sullo sfondo della nascita di una nazione, il film che Natalie Portman ha scritto, diretto e interpretato non si presenta in partenza carico di ambizioni eccessive, e proprio per questo riesce a colpire nel segno, almeno in parte. Come interprete, nei panni della madre del piccolo protagonista, la Portman riesce a disegnare con bravura una figura contraddittoria e affascinante, malinconica e radiosa, piena d’amore e di luce, e al tempo stesso sprofondata nell’oscurità. Anche come regista se la cava con onore, muovendo la macchina da presa con sensibilità e rigore, accostandosi ai suoi personaggi con rispetto e intelligenza.
Forse è la Portman sceneggiatrice a non rivelarsi del tutto all’altezza del compito, e da questo punto di vista il confronto con il magnifico libro di Amos Oz rischia di essere impietoso. Una storia di amore e di tenebra è un affresco potente e minuzioso, complesso e poetico, che riesce a tenere insieme la Storia del popolo ebraico – dall’Europa in bilico sulla catastrofe alla Palestina rabbiosa e insanguinata degli anni Quaranta – e la piccola storia di una madre, di un figlio e di un padre pieno di buone intenzioni ma incapace di essere davvero all’altezza del suo compito.
Un padre a cui Amos Oz regala una piccola scena perfetta, a un certo punto del libro, poche righe in cui viene descritto un padre amorevole e distratto, nel momento in cui accompagna il figlio adolescente che lo sta lasciando per andare a vivere in un kibbutz: proprio nell’istante del commiato, all’apice della commozione, si confonde e saluta il figlio agitandosi e sbracciandosi, ma rincorrendo il pullman sbagliato. Una piccola scena, un’immensa capacità narrativa, quella di Amos Oz. Altrettanto non si può dire di Natalie Portman, modesta nelle ambizioni come nei risultati. Ma, se non avete letto il romanzo autobiografico di Oz, questo film potrebbe farvi venire intanto voglia di affrontare questo capolavoro… Anche solo per questo, vi consigliamo la visione del film di Natalie Portman.
Sognare è vivere di Natalie Portman, con Natalie Portman, Gilad Kahana, Amir Tessler
matrimonio in crisi per mancanza di uomini (decenti)
Rama Burshtein è stata cinque anni fa, con La sposa promessa, suo film di debutto, una delle vere rivelazioni della Mostra di Venezia, anche se portò a casa “solo” la Coppa Volpi alla miglior attrice, Hadas Yaron. Torna alcuni anni dopo, riproponendo in Un appuntamento per la sposa un mix simile di toni da commedia e riflessioni sulla società ebraica ortodossa, di cui peraltro fa parte, e in primo luogo sul ruolo della metà femminile in quella cultura. Questa sua seconda prova ha senza dubbio intenti meno drammatici (anche se non sempre meno amari) e nasce, all’opposto di quel suo più riuscito primo film, da una premessa paradossale, i cui esiti appaiono, almeno nelle intenzioni, più divertenti.
Michal, ebrea ortodossa sulla trentina, viene lasciata dal promesso sposo a tre settimane dal matrimonio. Depressa alla sola idea di ritornare all’antica vita da single, piena di false promesse, partner inadeguati e spesso in fuga, e del resto fiduciosa nell’aiuto del suo Dio gentile e collaborativo, decide di non cancellare i costosi, elaborati preparativi per la cerimonia: al contrario, cercherà di trovare nei pochi giorni che la separano dalla data fatidica (e non cancellabile, pena la perdita di ogni credibilità ai suoi stessi occhi) un uomo disposto a sposarla. “Ho la sala, l’abito, la data e 200 invitati, non sarà difficile trovare marito”.