Un serial lungo 35anni, una saga punk-rock ambientata ai limiti della fine del mondo per la trama post-atomica e la location nel deserto australiano. Tutto, intorno a un protagonista sconosciuto all’inizio, ma poi star hollywoodiana: Mel Gibson. E a motori rombanti, scontri iperbolici, musiche a tutto crash. Con partecipazioni straordinarie di gran nome, da Tina Turner a Charlize Theron, e un nume tutelare che sopra ci ha costruito una singolare carriera, il produttore-regista George Miller
Ci sono un futuro premio Oscar alle primissime armi, una rockstar all’apice della carriera, cinque fotomodelle incinte e un pinguino in CGI, in automobile in mezzo al deserto. A raccontarla così, sembra una barzelletta. E invece, in un simil quadretto da cinema dell’assurdo è riassunta tutta la follia alternative-rock di una saga ai limiti della fine del mondo, più volte creduta al capolinea (almeno quanto il suo creatore) ma ancora capace di stupire a colpi di acceleratore, adrenalina, costumi stravaganti e violenza surreale. Stiamo parlando dell’epopea di Mad Max, allucinata visione post-apocalittica in quattro parti, tra il 1979 e il 2015, del regista australiano George Miller. Uno che, nella sua carriera, i pochi progetti li ha sempre scelti con cura, tanto da avere all’attivo soltanto nove lungometraggi in quarant’anni di attività. Il criterio di selezione, quello però resta un mistero: accanto al ciclo di road-movie distopici che ne farà la fortuna, gli altri titoli di richiamo nel suo curriculum vitae sono Babe va in città (imperdibile seguito di Babe maialino coraggioso) e i due Happy Feet, cartone animato in 3D su un piccolo pinguino che balla il tip-tap.
Il premio Oscar è un ancora sconosciuto Mel Gibson, nel 1979 praticamente al debutto sul grande schermo, sicuramente ben lontano sia dalla figura di sex-symbol d’America, sia dalle crisi mistico-retoriche che ne segneranno ascesa e inesorabile declino negli anni a venire. Quando Miller lo sceglie per dare il via alla sua quadrilogia con Interceptor, Gibson ha all’attivo un solo film, il semisconosciuto Summer City – Un’estate di fuoco, ha sul volto i segni di una rissa da bar della sera prima, e sta accompagnando a un casting la sorella. La sua scoperta quasi casuale è la ciliegina sulla torta di uno stravagante carrozzone composto da attori shakespeariani (a cominciare dall’antagonista, Hugh Keays-Byrne, tanto fedele al franchise da tornare nel quarto episodio, 36 anni più tardi) e vere gang di motociclisti pagati in casse di birra. Il risultato è un Dukes of Hazzard allo specchio deformante, un road movie fantascientifico più nelle intenzioni che nel risultato, orgogliosamente anni ’70 quanto sfacciatamente low-budget: la leggenda narra che buona parte del film, comprese le spettacolari (quelle sì) scene di inseguimento e gli incidenti automobilistici, venga addirittura girato con la tecnica del guerrilla filmmaking, ovvero di nascosto, in fretta e furia e senza alcun permesso ufficiale. Finanziato col suo lavoro di medico notturno al pronto soccorso di Sidney, l’esordio cinematografico di Miller incasserà oltre 100 milioni di dollari nei cinema di tutto il mondo, a fronte di una spesa di produzione di soli 400mila dollari.
Un simile successo, nell’epoca d’oro della fantascienza con pochi soldi e tante idee, può significare una sola cosa: un sequel immediatamente in cantiere. Interceptor – Il guerriero della strada entra ufficialmente in produzione nell’inverno del 1981, e questa volta Miller ha dalla sua gli ottimi risultati ottenuti con il primo episodio, quindi un budget decisamente più corposo per garantirsi mano libera su trama, ambientazioni e costumi. La colonna sonora è affidata ancora una volta a Brian May (soltanto un omonimo del chitarrista dei Queen), compositore australiano con una certa predilezione per la musica d’orchestra d’altri tempi, a rendere il tutto ancora più assurdo e dissonante. Ovviamente confermatissimo anche il bel Mel dagli occhi blu nella parte del protagonista, solo più cinico, impolverato, mono espressivo e silenzioso (il progetto iniziale di Miller era realizzare un film muto), al punto da avere soltanto sedici battute in un’ora e mezza di pellicola. Anzi, quindici, perché la battuta simbolo del film è ripetuta due volte dal suo personaggio: “Sono qui solo per la benzina”.
Ma è la carta d’identità del Mad Max due punto zero, disilluso sopravvissuto di una catastrofe (nucleare?) che ha abbandonato il mondo intero, o ciò che ne resta, in una guerra tribale tra le polveri dell’Outback, alla ricerca di benzina, motori funzionanti e una via di fuga verso l’ignoto. Il futuro vagamente cyberpunk della puntata precedente ha lasciato il posto a una nuova età barbarica fatta di deserti, dune buggy scalcagnate e moderne bande di mohicani pronte ad assaltare gli ultimi fortini-villaggio, baluardi d’una civiltà ormai quasi dimenticata. In America, dove il primo Interceptor aveva avuto una diffusione relativamente ridotta, il film viene distribuito come racconto a sé stante, e nel trailer Mel Gibson (ancora tutt’altro che conosciuto fuori dal territorio australiano) non compare praticamente mai, a favore delle sempre più roboanti sequenze di inseguimenti, esplosioni e incidenti di ogni sorta. Eppure, questa volta, il film ottiene l’approvazione unanime di pubblico e critica statunitensi, sbancando i botteghini con un incasso di quasi 35 milioni di dollari e guadagnandosi, nel 2008, un posto tra i “1000 migliori film mai fatti”, secondo l’autorevole New York Times.
Non stupisce, quindi, che Mad Max oltre la sfera del tuono, girato quattro anni più tardi, sia un prodotto hollywoodiano a tutti gli effetti, tanto da far ancora oggi storcere il naso ai fan più accaniti del franchise. Mel Gibson è definitivamente in rampa di lancio, a un passo da quel primo Arma letale che lo consacrerà nel firmamento delle star d’oltreoceano: la produzione, decisamente orientata verso il mercato a stelle e strisce, decide di cogliere due piccioni con una fava e affiancargli un’improbabile Tina Turner in cotta di maglia e parrucca, sfruttandone la popolarità e facendole firmare anche due canzoni per la colonna sonora. Ma, soprattutto, il terzo episodio della serie ha toni ben più smorzati rispetto ai precedenti (è il primo vietato ai minori di 13 anni, anziché 18) e atmosfere che a tratti ricordano quelle di un fantasy anni ‘80 per adolescenti, a cominciare dal folto gruppo di “bimbi sperduti” che Max, duro dal cuore tenero, si incaricherà di scortare verso la terra promessa. Anche la “Bartertown” delle prime sequenze è un mix tra un freak show steampunk (l’intera città è alimentata grazie al metano dallo sterco di maiale) alla Terry Gilliam e una puntata di American Gladiators. Incredibilmente, il bizzarro cocktail funziona a meraviglia, ampliando e popolando di figure suggestive un universo finora soltanto accennato, e regalando al grande pubblico il capitolo più riuscito dei tre. Persino la figura di “Mad” Max Rockatansky, ritratta nei due Interceptor in maniera piuttosto abbozzata e confusa, ha qui finalmente la profondità e il numero di battute che merita, tanto da meritarsi (complice il finale aperto del film) la speranza di un ulteriore sequel.
E arriviamo ai giorni nostri. O meglio, al 2015, quando, per dirla con le parole del fumettista Leo Ortolani, autore di un’esilarante quanto azzeccatissima recensione di Mad Max: Fury Road, “giunto ormai a un sereno declino artistico girando i film di Happy Feet, al 70enne George Miller sbagliano il dosaggio delle pillole, e lui dirige uno spettacolare action-movie”. Non si spiega altrimenti la radicale inversione a U di un regista apparentemente rassegnato al cartone animato per famiglie, e il recupero dal nulla, dopo più di trent’anni, di un filone dato ormai per morto e sepolto. Fatto sta che per Mad Max e per il suo creatore si tratta un ritorno in grandissimo stile: Fury Road è l’apoteosi, un’opera rock di altissimo livello, una lezione che ogni regista d’azione più giovane e più quotato dovrebbe imparare a memoria dal primo all’ultimo fotogramma. C’è tutto, solo che ce n’è di più, molto di più, dai rottami futuristici al gergo stile “Arancia meccanica”, dalle corse nel deserto alla violenza iper-adrenalinica.
Le dieci nomination all’Oscar, e le sei statuette portate a casa (tra cui miglior montaggio, migliori scenografie, costumi e trucco), sono la certificazione della qualità senza tempo di Miller, abilissimo nell’adattare la propria cifra stilistica senza snaturarne il lato più estremo, visionario. A cambiare, invece, è il cast: accanto al nuovo Mad Max Tom Hardy, a guidare la carica (ed è anche questo un segno dei tempi) c’è uno scatenato gruppo di donne guerriere, mogli in fuga dal marito tiranno capeggiate da un’accigliatissima Charlize Theron in stato di grazia. La trama? Anche quella è sempre la stessa: si guida, si spara, si muore oppure no, e una volta arrivati a destinazione si fa marcia indietro e ci si ributta sulla strada senza guardarsi alle spalle. Non importa quanti anni siano passati. Per Mad Max e per George Miller, che gli dei del cinema lo preservino, il viaggio sembra non finire mai. Anzi, sembra essere appena cominciato.
Il film after da “The road” a Cuaron
Altro che mascherine e quarantene: se c’è una cosa che Hollywood ci ha insegnato, è che il modo migliore per combattere epidemie, invasioni zombie e altri scenari post-apocalittici, è correre veloce e picchiare (o sparare) forte. E così, mentre sul web si moltiplicano alla velocità di un contagio classifiche sui migliori titoli in fatto di pandemia, noi da inguaribili ottimisti preferiamo concentrarci sulla fantascienza del “day after”, rispolverando qualche perla più o meno nascosta che, anziché la fine, racconti da dove ricominciare.
In ordine crescente di speranza nel domani. In fondo alla classifica, il cupissimo The Road di John Hillcoat, tratto dallo splendido romanzo omonimo di Cormack McCarthy, premio Pulitzer nel 2007: un road movie tenebroso e angosciante, ambientato in una wasteland grigia e desertica, illuminato soltanto dal dolcissimo rapporto tra i due protagonisti, padre (Viggo Mortensen, decisamente nella parte) e figlio, alla ricerca di una irraggiungibile terra promessa al di là del mare.
A seguire, un gradino sopra nella scala dell’ottimismo (se non altro per il vago accenno a un possibile lieto fine), il bizzarro I figli degli uomini, produzione anglo-americana diretta da un Alfonso Cuarón reduce da
Harry Potter e in cerca probabilmente di qualcosa di più intimista: in questo caso a mancare non è la fertilità del terreno, ma quella, altrettanto preziosa, degli esseri umani. Sarà uno scettico Clive Owen, protagonista assoluto di una pellicola che annovera tra i suoi interpreti anche Julianne Moore e Michael Caine, a salvare l’umanità, scortando verso la salvezza una giovane ragazza (immigrata) incinta.
Altra opera passata piuttosto in sordina tra pubblico e critica, nonostante la presenza di una star come Tom Cruise, è il curioso Oblivion del quasi debuttante Joseph Kosinski. Il fatto che probabilmente per ingaggiare Cruise si sia spesa la fetta più grossa del budget a disposizione non finisce per penalizzare il film, al contrario: Oblivion è il classico esempio di come, con pochi soldi e buone idee, si riesca comunque a confezionare un prodotto d’intrattenimento più che dignitoso. Il punto forte della storia è infatti la sceneggiatura a scatole cinesi, con un paio di colpi di scena e ribaltamenti decisamente efficaci.
Praticamente sconosciuta in Italia, dove è stata distribuita soltanto per il mercato home video, è l’opera prima (e per ora unica) del giovane Shane Acker, ovvero lo splendido film d’animazione 9. Ispirato in parte alle atmosfere e alle tecniche di animazione a passo uno del ben più famoso Nightmare Before Christmas, questa stravagante opera dark, co-prodotta dallo stesso Tim Burton è un autentico gioiello nel panorama dei cartoon in computergrafica, collocandosi a metà tra il prodotto per famiglie (ma attenti ai bambini più piccoli, certe scene sono davvero inquietanti!) e la favola horror, ma rigorosamente a lieto fine.
E a proposito di lieto fine, non poteva mancare l’impronta dei professionisti sul tema: Tomorrowland – Il mondo di domani non è soltanto uno degli ultimi film live action prodotti dalla Walt Disney Pictures, prima dell’ondata di remake in carne e ossa di cartoon di successo. La trama, intrisa della più classica melassa di casa Disney, si ispira direttamente alla sezione dei parchi Disneyland a tema fantascientifico, e al progetto teorizzato dallo stesso Walt Disney di un’ideale città del futuro per scienziati, luminari e comunità modello. Fortunatamente, al volante di questa astronave un po’ anni ’80 (ma con riferimenti squisitamente anni ’50), insieme a George Clooney c’è la garanzia Brad Bird, veterano Pixar e premio Oscar per Gli incredibili e Ratatouille. Il classico equipaggio a cui, in caso di futuro alla deriva, non avremmo dubbi ad affidare il timone.