Abbiamo intervistato Claudia Durastanti in uscita in libreria con “La straniera” per La Nave di Teseo, un libro autobiografico con il quale l’autrice (già giornalista e traduttrice) offre profondi motivi di riflessione sociale partendo dalla rivelazione della sua eccezionale storia e sperimentando nel suo romanzo diverse forme narrative come il saggio e il long-form. Claudia Durastanti sarà presente domenica 17 Marzo a Book Pride 2019, per la presentazione del suo libro.
Claudia Durastanti torna in libreria con La straniera (La Nave di Teseo, 2019), un libro che segna il passaggio dal romanzo di fiction a un soggetto esplicitamente autobiografico. Dopo una prima parte dedicata alla eccezionale storia della sua famiglia e della sua radice, l’attenzione si sposta sull’io. Si capisce molto presto come il tratto autobiografico del libro non sia un fine ma uno strumento per riflessioni più ampie e profonde su temi sociali, economici e politici di carattere universale, accogliendo stili narrativi più sperimentali, come il long-form e il saggio giornalistico.
Nata a Brooklyn da genitori entrambi non udenti, Claudia Durastanti si trasferisce in Basilicata ancora bambina, compiendo un tragitto inverso a quello comune a molti emigrati del secolo scorso. Attraverso un percorso che la porterà a Roma, durante gli studi, e poi a Londra (città in cui attualmente vive), l’autrice esplora e descrive la condizione di sentirsi straniera a vari livelli: nel rapporto con i propri genitori, in quello con i suoi familiari, nelle relazioni e nei luoghi in cui ha vissuto. Con lo svilupparsi della narrazione il personaggio-Claudia prende il centro del raccontare che si allarga e si eleva a temi sociali come la disabilità, la transizione di classe, l’amore.
Con questo libro passi dallo scrivere fiction a qualcosa di direttamente autobiografico, in un genere in realtà non facilmente inquadrabile. Cosa ti ha spinto a questo cambiamento? È stata una necessità, un processo istintivo, o qualcosa che avevi in mente da un po’?
È stato abbastanza graduale, direi, e sicuramente un po’ favorito dal fatto che erano un po’ di anni che mi occupavo di long-form o di scrittura parasaggistica, di giornalismo culturale in prima persona. E sicuramente una chiave di volta è stato quando all’indomani delle elezioni di Trump ho scritto un pezzo sulle elezioni e sul fatto che la mia parte di famiglia americana lo avesse votato. E quello era un momento in cui avrei dovuto mantenere un distacco critico abbastanza alto; insomma mi proponevo di fare un’analisi di progressi sociali e politici un po’ macroscopica e invece mi è venuto istintivo partire dall’esperienza più ravvicinata, quella della famiglia. Lì credo di aver trovato una voce o una forma che poi mi è interessato sperimentare, perché come delle immagini, le storie che poi racconto ne La straniera, le sento riecheggiare nella mia fantasia fin da quando sono piccola.
Non ho mai voluto che questo fosse un libro d’esordio, perché quello che mi interessava fin da subito era il potere di raccontare storie, creare mondi, immaginare vite altre, e mi sarebbe sembrato in qualche modo troppo scontato, perché raccontando la storia dei miei genitori sapevo che avrei avuto quasi immediatamente l’attenzione del lettore. Era una cosa che riscontravo poi nella mia vita, quindi ho voluto prima prendere le misure, rafforzarmi con la fiction e quando poi mi sono resa conto che scrivere la storia della mia famiglia, dei miei genitori, non avrebbe più avuto una funzione terapeutica, catartica, lì ho deciso di raccontarla, perché mi ha permesso di trattarla proprio con la stessa gioia e l’istinto che uso nel “romanzesco”. Quindi c’è questa sorta di controsenso, non so se riesco a spiegarmi. Il problema dei memoir o delle biografie familiari è che spesso vengono utilizzate come luoghi in cui compiere una sorta di resa dei conti, in cui liberarsi dal fantasma del padre o della madre; ecco, non era quello che volevo fare in questo libro, quindi ci sono arrivata in maniera graduale sì.
Non hai avuto paura di metterti a nudo?
C’è un’aritmia nel libro: cambiano, ad un certo punto, stile e procedimento. In qualche modo le ultime parti, quelle che riguardano me adulta e presente, sono connotate anche da una scrittura con una diversa emotività, con una maggiore fragilità. Ma io parto dal presupposto che ogni storia sul sé sia una finzione, un artificio, una costruzione; cioè sul mettersi a nudo mi faccio molte domande perché comunque c’è sempre un grossissimo processo di selezione. Quando si leggono ad esempio i libri di Annie Ernaux, scrittrice che amo molto, c’è spesso questa retorica del non avere pietà, non avere sconti su sé stessi, che la scrittura vera sia quanto più ci espone. Io credo che nel mio libro ci sia una scrittura onesta. Sento di aver raccontato una storia onesta però non necessariamente mi metto nella posizione di dire che quello è vero o è falso, anche negli episodi (ci sono anche scene madri nel libro per esempio) dove magari può sembrare che uno sia più fragile nel raccontarsi. Anche in quelle scene madri c’è un fortissimo controllo autoriale sull’impatto che avrà sul lettore, e quindi sulla costruzione estetica. E in un certo senso uso anche un po’ di ironia come dispositivo narrativo caloroso accogliente e quindi non mi soffermo sugli aspetti appunto più catartici o di dissanguamento del sé. Credo ci siano parti nel libro in cui mi camuffo abbastanza…
Hai scelto di descrivere in modo estremamente sincero e trasparente l’eccezionalità di essere figlia di due persone sorde, con tutto ciò che ne consegue, e dai spazio a riflessioni riguardanti la disabilità che ritengo ancora oggi essere un tabù. Come hanno accolto i tuoi genitori il tuo libro? Lo hanno letto?
Mio padre non è un lettore e quindi no, diciamo che in questo senso è una figura un po’ più marginale. Invece mia madre lo ha letto dopo che è uscito, perché nessuno della mia famiglia ha voluto interferire nel processo di scrittura; questo vale per mia madre e per mio fratello. A mia madre il libro è piaciuto, mi ha detto che è una bellissima storia. Ma è la mia, non è la sua. C’è da dire che mia madre sa mantenere il controllo… Era molto contenta di come era trattata la sordità. Di come il romanzo racconta di aspetti non facilmente osservabili da chi non vive quel tipo di disabilità.
Mia madre è una sorda atipica perché usa la lingua dei segni con altri non udenti, ma non la usa con gli udenti. C’è una dimensione per cui per quella comunità, formata da chi soffre di sordità, la questione del linguaggio e della lingua dei segni è essenziale, quindi parlare di una sorda che addirittura non la usa così fluidamente, e che non si identifica spesso nella lingua dei segni, è un altro aspetto che un po’ incrina il modo in cui immaginiamo la sordità. Per cui quando dico nel libro che anche la mutilazione è un linguaggio, racconto di questa forma di allucinazione, che vive mia madre, di doppio isolamento.
Sul senso di estraneità legata al luogo, ricorre nel tuo libro un senso di nostalgia per i posti che hai dovuto abbandonare. Un senso continuo di non appartenenza che nasce nel tuo caso nel momento in cui lasci Brooklyn per la Basilicata e che resta in realtà parzialmente irrisolto anche quando raggiungi Londra e capisci di esserci andata per i motivi sbagliati. Pensi sia possibile ritrovare una casa una volta lasciata la propria?
Sì, probabilmente sì. Adesso mi viene istintivo definire Londra come casa mia, ma lo faccio solo da pochi anni. Vivo a Londra da 8 anni; sono diventata consapevole del fatto che la sto lasciando, che me ne sto andando, proprio nel momento invece in cui inizio a considerarla casa. Perché riesco a identificare come casa i luoghi solo quando li ho abbandonati, in un certo senso.
La stessa cosa vale per la Basilicata. Spesso il concetto di straniero viene legato a una assenza di radici, a una mancata aderenza, a una mancata appartenenza, però io credo che nel mio caso (e forse è abbastanza frequente anche se non lo si pensa spesso in questi termini) sia una questione di eccesso di luoghi. Cioè è l’opposto del non avere radici, è averne tantissime. E quindi la sensazione di essere straniera nasce dal fatto che non è possibile sceglierne una. Quindi le questioni di appartenenza sono questioni d’amore, non so come dire, c’è un privilegiare qualcosa rispetto a un altro, io preferisco questo rispetto a quello. E quindi forse la mia condizione di straniera è questa incapacità di scegliere poi tra i luoghi che ho attraversato, che ho abbandonato, in cui vivo, quale abbia per me uno statuto superiore o con cui ci sia una perfetta aderenza. E quindi è come se tutte queste patrie formassero una grande patria immaginata e però sono tutte essenziali e quindi è come se ci fosse una sovrabbondanza in posti. Credo anche che nel libro si senta tanto questa sensazione di spostamento e di luoghi rispetto al fatto di non sentirmi davvero a casa in nessuno di loro.
Questo senso di mancata appartenenza appare oggi molto attuale e condiviso. Anche per persone che partono da un contesto molto meno eccezionale, cosa pensi a riguardo?
Sì, io credo che sia assolutamente trasversale. Per me addirittura è trasversale anche in persone che io dico “migranti potenziali”, che non si sono mai spostati, e che però sentono lo scollamento rispetto a dove vivono. Ieri durante una presentazione del libro a Padova è venuto un ragazzo che si occupa attivamente di Londra, della sua storia, di psicogeografia, ha un blog che parla di questo. Ed io ero convinta che lui vivesse a Londra e invece vive a Padova. Per dire che esiste anche questo senso di appartenenza non basato su uno stato reale, che magari ho avuto pure io nei confronti dell’Inghilterra quando ero ragazzina. Credo che l’America sia un territorio che ha molti più cittadini di quelli che effettivamente ci vivono; da un lato si può pensare che sia colonialismo culturale, ma a pensarci bene l’America vive nell’immaginario delle persone, ed è addirittura più vera come luogo nei romanzi.
Il tuo stile di scrittura è allo stesso tempo molto diretto, pragmatico, “crudo” a volte, ma non per questo privo di delicatezza e poesia. Ad esempio quando parli della differenza di classe sociale, della cui esistenza ti accorgi per la prima volta quando arrivi a Roma (“…fu all’università che scoprii davvero di appartenere a una classe sociale. Quando vivevo in Basilicata, la consapevolezza di far parte del sottoproletariato era presente ma indistinta..”)
Forse è la parte che ho avuto più paura di scrivere, quella, perché mi sembrava proprio di andare a gamba tesa su alcune posizioni: come puoi immaginare, quella della differenza di classe è una questione che mi porto dietro da vari anni e che secondo me viene raccontata poco. É stata raccontata molto da un punto di vista del mondo del lavoro, ma non da quello della transizione di classe da un punto di vista sociale. Una cosa che sta succedendo è che varie persone che comunque hanno una estrazione diversa da quella in cui sono cresciuta, magari che appartengono sin dalla nascita alla classe media, riflettevano sul fatto che un po’ tutta la nostra generazione viva una situazione di debito o di vita superiore alle proprie possibilità e quindi mi ha fatto abbastanza impressione che si creasse una connessione al di là degli schemi: io ho avuto una famiglia operaia, tu hai avuto una famiglia borghese, il fatto che ci troviamo in uno stato in cui, a prescindere dal punto di origine, viviamo tutti un po’ in questa dimensione se non del debito, del fare delle esistenze che poi non hanno un riscontro materiale nelle forme di paga e di distribuzione del reddito.
C’è questa idea della crescita come super affermazione economica che però è basata su uno sfruttamento di risorse; quindi ce la si deve porre, al di là della classe, la questione della crescita controllata o di un tipo alternativo di crescita. Invece se magari provieni da una classe subalterna che hai educato fin da piccolo al fatto che devi crescere, crescere, crescere, fare, fare, fare e spesso ti devi impossessare degli aspetti più beceri del capitalismo… penso ad esempio a tutto il filone hip hop, della cultura dell’emanciparsi dal ghetto.
Ad un certo punto nel libro leghi una cosa apparentemente molto “bassa” e pop per spiegare il modo in cui vivi un sentimento estremamente alto come l’amore. Mi riferisco al “ciao straniero”, che era il modo in cui veniva chiamato Dylan McKay (nella serie tv Beverly Hills) ogni volta che tornava da un viaggio ed era anche il modo di come lui stesso chiamava la sua ragazza Brenda quando stavano insieme. Credo che questo passaggio, più di tutti gli altri fornisca il codice per capire ciò che provi in amore. Pensi che questa compresenza di vicinanza e lontananza sia una cosa solo tua oppure universale, insita e inevitabile nei rapporti d’amore?
Io credo che sia la seconda, senza presunzione di superiorità. Però è come se scrivendo quella parte mi fossi detta, che l’amore, l’innamorarsi, è come se fosse un calco. Spesso non è che una sorta di brutta traduzione rispetto a un immaginario. Perché prima di incontrare qualcuno noi comunque ci siamo formati, e siamo saturi, in un certo senso, di elementi che ci hanno aiutato a prevedere come saremmo stati in una relazione d’amore, le aspettative che avremo avuto. E spesso questa confusione tra i binari dell’universale e del personale, di come si traduceva il fatto di aver unito il mito dell’amore nella vita privata, di questa distanza tra l’ideale e il reale, secondo me è un’esperienza che fanno un po’ tutti.
E poi nello specifico all’interno della crescita fra due persone (mi rendo conto nel mio caso di parlare di un’esperienza particolare perché si tratta di un rapporto molto prolungato nel tempo) volevo capire come agisce il tempo su questa cosa, di come si arrivi all’idea di coppia, di come venga definita. C’è sempre questa sorta di paradosso per cui tu devi cercare di salvare dal tempo, o protrarre nel tempo, una cosa che naturalmente è programmata per disfarsi; quindi l’usare Dylan McKay era un modo di dire: arriva il momento in cui si dice “ciao straniero” per attrarre qualcuno nella propria vita, in base alla lontananza, ma arriva poi quel “ciao straniero” anche per salutare questa persona che ne sta uscendo, e quindi è come dire che il motivo per cui finisce qualcosa è spesso lo stesso motivo per cui quella cosa è iniziata. Una lontananza che all’inizio ha questa componente attrattiva diventa poi la causa della fine.
Non so se avessi mai pensato prima a questa cosa in questi termini: l’essere straniero che all’inizio ha una componente, esotica, felice, fatta di passione e che poi si traduce effettivamente nel sentimento opposto. Era la parte del libro in cui mi sentivo più insicura perché mi sembrava di raccontare una cosa talmente personale di me.
In quello stesso passaggio definisci la traduzione di “ciao straniero” come pigra in quanto in inglese assume un significato più complesso. Visto che tu fai anche la traduttrice, stai pensando o hai pensato di tradurre il tuo libro in inglese, dato che in qualche modo forse completeresti una sorta di simmetria formale e di contenuto che il tuo libro ha, a partire dal titolo?
Il mio libro è stato acquistato e verrà tradotto, però non voglio farlo io. Vorrei passare dall’altra parte questa volta e vivere l’esperienza di essere tradotta.
Poi sarai severissima.
Credo di sì. A parte che il titolo non lo posso usare in inglese per via dell’eredità di Camus, quello che mi piacerebbe in inglese per il mio libro è tratto dal primo verso di una poesia di Emily Dickinson, “a formal feeling”, un sentimento formale. Credo che quello sarebbe un bel titolo.
Pensi che tornerai a scrivere fiction dopo questo libro?
Sì, non so ancora come, però credo di sì. Sempre in maniera probabilmente ibrida, come questo libro, magari con un’inclinazione più romanzesca. Non credo di poter tornare più a scrivere con quella pretesa da romanzo di fiction dall’inizio alla fine. Credo che ci sia uno spettro in cui, tra fiction e non-fiction, ci sono tante cose che puoi fare nel mezzo. Quelli sono i libri che mi interessa leggere. Non mi interessano probabilmente più la fiction pura pura e la non-fiction purissima. In tutto quello che c’è in mezzo ci sono tantissime cose che si possono fare.
Book Pride 2019: ogni desiderio